Cultura e Spettacoli

10 febbraio “Giorno del Ricordo”, dalle foibe all’esodo

Forse non ci si pensa ma la scelta dell’esodo fu, per chi partiva, come una medaglia a due facce: la prima era un’affermazione anzitutto spirituale e morale, di libertà e italianità; la seconda era invece una rinuncia di ordine materiale non certo secondaria: lasciavano le proprie case, il proprio lavoro e ciò che con esso avevano costruito, rinunciavano a quello che gli avevano lasciato i propri genitori e i propri nonni, la barca da pesca, l’officina del fabbro… E allora quando gli esuli partivano, cercavano di portar via tutto quanto si poteva. A fianco di ogni persona, quando ce n’era la possibilità, si mossero le cose: non tesori o grandi ricchezze ma le cose di ogni giorno, la roba di casa o di bottega: letti, materassi, armadi, piatti, quadri, attrezzi. Le masserizie si accatastavano sul molo di Pola, oppure sui marciapiedi e lungo le strade negli altri paesi, in attesa di essere imbarcate o caricate sui camion trainati da asini o buoi. Il destino della gente, una volta giunta in Italia, era quello dei Centri di Raccolta Profughi: le varie prefetture, che avevano competenza su cose e persone, smistavano gli esuli nei campi e la “roba” nei depositi. E’ così che spesso si trova sulle masserizie sia l’etichetta di partenza, cioè quella dell’agenzia che trasferiva il materiale, con il nome della famiglia, il numero dei colli e quello specifico del collo, oltre alla destinazione di arrivo (“Prefettura di Bari. Magazzino Masserizie Profughi – Altamura”). Nel tempo la gran parte delle masserizie venne ritirata dagli esuli dai vari deposti sparsi in tutta Italia. Ciò che non fu recuperato si accorpò, negli anni ’50 e ’60, con quanto stava già a Trieste nei magazzini del Porto vecchio da dove, i legittimi proprietari, continuarono a ritirare le loro masserizie fino agli anni ’70. L’ultimo appello pubblico al ritiro fu fatto dalla Prefettura di Trieste nel 1978. Poi, per circa dieci anni, le masserizie rimasero chiuse nel Magazzino 22 senza che nessuno se ne occupasse. Il Prefetto di Trieste, quindi, interpellò l’Avvocatura dello Stato la quale dichiarò che le masserizie dovevano ritenersi abbandonate e di nessuno indicandole come materiale di valore “nullo”. La Prefettura, a questo punto di fatto proprietaria delle masserizie per conto dello Stato, accolse l’appello delle associazioni degli esuli per salvare ciò che, giustamente, era da considerarsi un pezzo della loro storia: fu nel 1989 che donò le masserizie all’Istituto Regionale per la Cultura Istriana a testimonianza dell’esodo istriano, fiumano e dalmata. L’Autorità Portuale di Trieste dovendo procedere alla demolizione del Magazzino 22 spostò le masserizie nel Magazzino 26 dove vi rimasero fino alla fine degli anni ’90, quando vennero trasferite e collocate al Magazzino 18 dove tutt’ora si trovano: duemila metri cubi di “roba” che parla e racconta. Per chi sa ascoltare. Simone Cristicchi ha ascoltato la voce di quello che ha chiamato lo “Spirito delle Masserizie” e l’ha trasferita nel suo toccante spettacolo “Magazzino 18”, che ha saputo commuovere l’Italia intera. Quel luogo glielo aveva fatto scoprire Piero Delbello, direttore dell’IRCI, il quale aveva costruito un percorso che inizia con una parete piena di quadri, ritratti e foto, una sequenza di volti senza nome, che non sappiamo e sapremo mai chi fossero, tutti tratti dalle casse dell’esodo. Ci sono anziani coi baffoni, marinaretti, giovani spose, bambini. C’è anche la foto di una ragazzina con una valigetta e la scritta “esule giuliana” ed un numero: quella si sappiamo chi è, si è riconosciuta scoprendo da adulta che la sua foto e diventata simbolo dell’esodo. Si chiama Egea Haffner, vive a Rovereto, è figlia di un usciere della Prefettura di Fiume, prelevato da casa nei primi giorni del maggio 1945 e mai più ritornato. Infoibato a Pisino. Quella bambina orfana rappresenta nella violenza subita la storia del popolo istriano e della bestia a tre teste che lo ha massacrato: la prima testa è la storia più brutta, la morte infondo ad una voragine carsica, infondo al mare o chissà dove; la seconda è nei cassoni, nei bauli, nell’eterno partire, nell’andare via che dal 1943 continuò fino agli anni ’60; la terza nel destino di questa povera gente, individui disgregati nei campi profughi e magari divenuti emigranti lontano. Tutto questo s’incontra al Magazzino 18: le scritte col gessetto sui cassoni, i nomi e le provenienze delle famiglie, i quadri, le immagini religiose, la somma di tutto ciò che era la quotidianità fino a che il tempo, un giorno, si fermò su quelle cose. Ecco le stufe, gli attrezzi di lavoro, le pialle, il tombolo, i piatti, i bicchieri, gli occhiali, i ricordi, le bambole, il cavallino di legno, la ruota, i quaderni dei bambini con le cornicine, la data e pensierini dell’ultima gita, raccolte di tanti piccoli attimi di poesia. Il serpentone dei mobili, dei comò, degli armadi, delle cassettiere, la catasta impressionante di mille e mille sedie, che furono del vecchio nonno, e del papà, e della mamma, e di quella bambina che si sedeva a capotavola sognando di essere una principessa. Sogni perduti frantumatisi il giorno dell’addio e cristallizzati in quella piccola Pompei che è il Magazzino 18 del Porto vecchio di Trieste. Negli anni ’50 la Puglia fu tra le prime regioni a rendersi disponibile per ospitare i profughi. Nel Capoluogo, grazie all’intervento del Ministero degli Interni, nel 1956 furono costruite le palazzine del “Villaggio Trieste”, un quartiere situato tra lo Stadio della Vittoria e la Fiera del Levante. Ventisei palazzine per un totale di trecentosedici mini appartamenti con i quali circa mille esuli ricominciarono a vivere dopo aver perso tutto. Ed è proprio in questo luogo che, ogni anno, si commemora la vicenda drammatica dell’esodo e si ricordano le vittime delle Foibe, un pezzo di storia Patria per troppo tempo dimenticata, che attende ancora una condanna unanime e una memoria condivisa. Nella mattinata di oggi, nel pieno rispetto delle misure anti Covid-19, il programma prevede la deposizione di una corona d’alloro da parte del Sindaco di Bari presso la targa affissa in largo Don Policarpo Scagliarini. Nella giornata di sabato 12 febbraio, alle ore 19.00, presso la chiesa di S. Enrico ci sarà la lettura scenica di “Foibe: dal massacro all’esodo, storia, memoria, testimonianze” a cura di Leo Lestingi e Cristina Angiuli – Fisarmonica Sandro Cardascio. Infine domenica 13 febbraio, a partire dalle ore 17.30, sempre nei pressi della targa ricordo, ci sarà la deposizione della corona d’alloro da parte del Comitato 10 febbraio e delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma seguita da una fiaccolata silenziosa in memoria dei martiri.

 

Maria Giovanna Depalma


Pubblicato il 10 Febbraio 2022

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