Cultura e Spettacoli

A cena per non dimenticare

L’Armenia è rinata nel 1991 con l’affrancamento dall’URSS. Un tunnel lungo quasi mille anni e che sotto il tallone di Istanbul ha conosciuto il momento più nero. I pochi armeni sopravvissuti al genocidio ottomano non si stanno comportando diversamente dagli scampati all’Olocausto. Non hanno più voglia di denunce, chiedono di dimenticare. I loro nipoti, invece, specie quelli dispersi nel mondo (si calcola siano un sei milioni), insistono più di tutti, vogliono sapere, non vogliono smarrire le radici ; l’attuale Armenia, raccolta attorno alla capitale Jerevan, ha ai loro occhi come del  virtuale, dopo che secoli di storia turbinosa hanno radicato in questa gente l’idea di  popolo piuttosto che di nazione. Intorno a questo tema si dipana il senso di “Una cena armena”, una produzione Màlbeck Teatro andata in scena tra mercoledì e giovedì al Petruzzelli. Nel testo di Paola Ponti due armene, una giovane l’altra matura, bloccate da una nevicata, si trovano a dividere una notte. La ricerca di un dialogo da parte della ragazza trova ostacolo nella sofferta ritrosia della donna. Ma poi, parlando di cibo, e quindi di antica cucina armena – proprio come avviene in “La cucina d’Armenia”, il testo di Sonya Orfalian da cui ha preso spunto la Ponti – questa distanza si azzera e prende vita un ponte che collega la generazione di chi ha raccolto il silenzio dei padri sfuggiti allo sterminio turco e la generazione di chi nutre speranza e guarda all’avvenire. Brave Silvia Ajelli e Antonella Attili nel delineare un forte contrasto caratteriale. Nella regia di Danilo Nigrelli due donne si confrontano tra valigie appese muovendosi su un variopinto semicerchio di stracci immerso nella nudità della scena (inspiegabile questa scelta di allestire due tribunette sul palcoscenico trasformando il  retro-sipario in fondale ; contenitore algidissimo, il retroscena, chiamiamolo così, del Politeama non ha sostenuto in alcun modo il calore che la pièce intendeva esprimere). Bene, comunque, la scena della lezione di cucina, affidata ad una gestualità antica e rituale. Meno bene il finale – per l’enfasi fastidiosa che lo riconduce al mito della Gerusalemme Celeste – quando il sipario si schiude proiettando in scena un potente fascio di luce proveniente dalla platea e verso il quale s’incammina la donna, per una vita sostenuta dal sogno del ritorno a Jerevan. Al termine dello spettacolo, Nigrelli ha speso parole commosse per la “professionalità religiosa” con cui svolgono il loro compito le maestranze tecniche del Teatro Petruzzelli. Un bel gesto. Già che c’era, però, Nigrelli, poteva spendere qualche parola anche per Nor Arak, il villaggio armeno che sorse a Bari nel 1926 e dove trovarono rifugio alcune centinaia di profughi, poi divenuti stanziali grazie al fiorire dell’industria tessile (tappeti) a cui seppero dare impulso. Ma forse qualche parola non sarebbe bastata. Ci ha messo una pezza la sorpresa di un ricco buffet organizzato nel foyer, tutto all’insegna – si capisce – della cucina armena. Il cibo non farà parlare ma parla eccome. Quando si dice ‘una cena armena’.
 
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Pubblicato il 5 Giugno 2011

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