Cultura e Spettacoli

A teatro lo’spirito’ si rallegra

Sono passati settantacinque anni dalla prima di ‘Spirito allegro’, commedia brillante di Noel Coward nella quale con leggerezza frivola viene trattato il tema dell’oltretomba. Sulla carta un testo superato, di quelli che un pubblico smaliziato come quello di oggi dovrebbe disdegnare. Come spiegare invece il successo che sta incontrando questo allestimento targato Diana Or.i.s. e diretto da Fabio Grossi?  Anche a Bitonto domenica scorsa c’è stato il tutto esaurito. E quanti spettatori a fine spettacolo in attesa davanti all’ingresso ai camerini. Perché? Perché oggi due persone in scena sono un popolo, scene e costumi hanno assunto carattere marginale, gli autori si sono fatti criptici e gli interpreti snobbano l’arte recitativa. Poi arriva Leo Gullotta e il palcoscenico si affolla di sette-attori-sette, scene e costumi sfolgorano, intanto che Coward mette le cose in chiaro sin da subito : il paranormale è un inganno, anzi una truffa, per cui è lecito riderne. Il resto lo fanno una splendida traduzione, il lavoro di professionisti che applicano i fondamentali dell’arte scenica senza scadere nell’accademismo, la costanza del ritmo, sincronismi perfetti e un ‘colore’ coerente dalla prima all’ultima battuta. Eppure ‘Spirito allegro’ non è un capolavoro. La scrittura di Coward, che affronta con superficialità un argomento che invece merita il massimo rispetto, fa sorridere sì, ma non migliora i costumi di nessuno (Charles, il protagonista, è un insopportabile egoista, un vanesio, un frivolo, un ‘moglicida’ che niente e nessuno punisce). Semplicemente, ‘Spirito allegro’ va a riempire un vuoto scavato da una morra di autori-interpreti monologanti per scelta. Un vuoto allargato da classici premuti come limoni e stravolti con impudenza (tutto a scapito delle nuove leve della drammaturgia che così vengono esclude dal ‘mercato’). Un vuoto allargato da una scuola di pensiero interpretativa che aborrisce persino il lato buono della tradizione, da una generazione di registi che dietro una pianificata non-comprensibilità cela la mancanza di talento. Il successo, peraltro meritato, di Grossi, Gullotta e compagni, segnala non un teatro in risalita, bensì una platea stanca, delusa e per di più incanutita che per ripiego si riappropria di tutto quello che le è stato tolto (il peggio incluso). Senza platea non c’è futuro. Lo tengano a mente politici interessati, gestori senza passione, direttori artistici tutt’affatto lungimiranti e uomini di teatro che non sanno, non vogliono sapere cosa vuol dire ‘fare sistema’, contentandosi di vivacchiare nel proprio orticello, l’occhio diffidente o grondante invidia a seconda dei casi e proteso al di là di recinzioni rovinose.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 27 Gennaio 2016

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