Cultura e Spettacoli

Andare in guerra fu, è, sarà un dovere ?

Lettera a un Fante bitontino sopravissuto alla disfatta dell’”armir” in russia

E – grege sig. Giuseppe Sorgente,

prima di parteciparle le mie Impressioni sulla sua testimonianza, fra cronaca e storia, della non imprevista disfatta del contingente militare italiano in russia, pubblicata da Mursia in un libro dal titolo “UN FANTE IN RUSSIA” (La tragedia della divisione “Vicenza” 1942 – 1943), voglio, brevemente, Condividere con lei ciò che MI raccontò un signora di giovinazzo, borgo marinaro a nord di bari, madre di una mia alunna nel liceo linguistico di molfetta. Questa signora non aveva mai conosciuto il padre che, giovanissimo, come lei, era stato strappato agli affetti più cari, messo, come lei, in un carro bestiame e mandato in russia a morire. Aveva fatto, neanche ventenne, la “fujtina” con la sua adolescente fidanzata e, qualche mese dopo le, allora, indispensabili, necessarie, doverose nozze riparatrici, gli arrivò la inesorabile “cartolina precetto” con l’ordine di presentarsi il giorno tal dei tali al distretto militare di bari per la visita medica di idoneità al servizio militare. Puntuale il futuro padre (la sua sposa era già gravida) si presentò il giorno indicato dai “ministranti della “patria” al luogo dove venivano riuniti i “morituri” e, non avendo il suo corpo rivelato problemi di “salute”, immantinente, fu dichiarato idoneo al servizio di soldato che avrebbe guerreggiato in russia con partenza nella tarda mattinata del giorno dopo siffatta dichiarazione di non improbabile transumanza alla morte. Il nostro soldatino ebbe modo di comunicare alla moglie quanto gli avevano annunciato i burocrati militari, sì che la moglie bambina, presaga che non avrebbe più visto il marito, si appostò dal primo mattino nella stazione ferroviaria di giovinazzo al terzo binario sul quale, le avevano detto, sarebbe transitata la tradotta che trasportava il suo amato a morire. Che davanti a lei, distrutta dalla dolorosa attesa, passò alle 14. Il vento le recapitò sul volto, ricoperto di lacrime, ché le asciugasse,  un fazzoletto bianco con le iniziali del suo nome e di quelle del marito, simbolicamente, insinuate in un cuore, disegnati a matita di fortuna con mano tremante, da lei conservato finché visse, tal sacra Reliquia, l’Unica di  Colui che, non dalla Vita, “sed” dall’ottusa stupidità di coloro che si fanno portavoce di turno dei voleri, dei “desiderata” della “patria”, era stato destinato ad essere annientato tra nevi ostinate, lontane. E – grege sig. Sorgente, fui Preso, Colpito dalla memoria, da parte della figlia, di un padre, mai, conosciuto e tutte le volte che MI capita di udire  che qualcuno digrigna la parola ”guerra” o di vedere in filmati televisivi giovani (“giovane” deriva dal verbo Lat.”iuvo” ed è “qui rem publicam adiuvat”, cioè “colui che giova alla repubblica” o alla “patria”) uomini che si combattono, il mio Pensiero va ai genitori di essi, alle loro mogli, ai loro figli e agli sposi adolescenti di giovinazzo a cui assurde vicende umane concessero, appena, il tempo di, vicendevolmente, Dirsi: “Ti Amo”. E – grege sig. Sorgente, ho Letto con commosso Coinvolgimento la descrizione di ciò che gli uomini possono fare gli uni agli altri con insopportabile cinismo, orrore, condotta, sviluppata non dall’Autore che con il bulino Lima, Cesella la sua Scrittura, sebbene, direi, dal nonno che affabula ai suoi nepoti o pronepoti le sue sofferte esperienze di giovane costretto dalla “patria” alle armi per uccidere l’innocente Prossimo. Anche noi italiettini, infatti, non possiamo scagliare la prima pietra in quanto capaci di brutalità, se solo ci riferiamo alle inenarrabili, miserabili crudeltà, dai nostri militari commesse, nelle guerre coloniali in Africa agli ordini di autentici criminali, come il gen. graziani e il gen. badoglio e il gen. de bono. Tanto che IO non Sottoscriverei, valido per sempre nel tempo e nello spazio, il suo campanilistico giudizio che, a differenza dei tedeschi e degli ungheresi, ”con la popolazione locale avevamo ottimi rapporti perché noi italiani eravamo cordiali, umani”. Una scrittura, quindi, la sua che, a differenza di quella d’Autore, Stilisticamente Elaborata nella Forma in cui Contenuti di Pensata Tempra Ideologica Si Dissolvono, risente della ingenuità del parlato, che non ha interesse a sedurre, esteticamente, il lettore, ma tende ad informarlo che certi fatti tragici, purtroppo, sono avvenuti nella Storia; parlato, tra l’altro, non ancora, ideologicamente, a distanza di molti decenni dalla caduta del regime fascista, del tutto depurato della ossessiva propaganda di esso che, tenacemente, faceva presa, emozionandoli, sui giovani. ”A quel tempo – ella scrive – ero solo un ragazzo manipolato dal regime fascista, senza avere una reale libertà di scelta”. Tra il Bene e il male, IO Aggiungerei. Tutto ciò che ella denuncia nel suo libro è, ognora, stato di dominio pubblico. Tutti sapevano che l’”armir” (230mila uomini) era un’armata “brancaleone”, male preparata, male armata (”I nostri fucili e l’artiglieria erano antiquati e si inceppavano per la temperatura molto rigida…Mezzi di segnalazione antiquati che si usavano durante la prima guerra mondiale…”), male equipaggiata, eppure, il compito di essa “era quello di conquistare Stalingrado: quale impresa per un esercito modesto, come il nostro”, ella lamenta! Mussolini sapeva, ma egli fidava, irrazionalmente, su hitler e sulle misteriose, letali bombe che, pure, il dittatore tedesco sarebbe stato in grado di sfornare, se gli alleati non fossero riusciti a distruggere nei paesi bassi i depositi di acqua pesante, utile per il confezionamento della bomba atomica. Durante il periodo di addestramento nelle varie caserme italiettine i soldati erano sottoposti a persecuzioni e vessazioni di ogni tipo da parte di ufficiali e sottufficiali. “Facevano questo – ella sottolinea –  per rendere il più possibile  sottomessi e servili i soldati, non conoscendo altro modo per renderli ubbidienti”. Sia in italia, durante l’addestramento che al fronte “si lavorava molto e si mangiava poco: il cibo scarseggiava a causa “degli addetti ai viveri e degli ufficiali che approfittavano dei loro gradi e delle loro funzioni per ”vendersi i viveri destinati alla truppa”. Per non parlare delle camerate nelle caserme italiettine e dei “bunker” al fronte infestati di cimici, pidocchi , topi. “Penso – ella rimostra – gli ovili siano più ospitali”. Inoltre, assoluta mancanza di rapporti umani tra gli ufficiali e la truppa. ”Consideravano la truppa degli automi, o meglio degli schiavi” e  nella disastrosa, anarchica ritirata, per non farsi riconoscere dai russi, essi “rinunziavano ai gradi, alle responsabilità che ne derivavano…quando avevano tutto il tempo e il modo di provvedere diversamente… Arroganza (degli ufficiali), leggerezza, disinteresse hanno avuto un ruolo molto rilevante nello sfacelo dell’Armir”. Queste, e – grege sig. Sorgente, sono le sue conclusioni sulla “napoleonata” italiettina in russia nella seconda guerra mondiale che, Ripeto, non aggiungono novità di rilievo su quanto fosse “in illo tempore”, sia ”hodie” di pubblica conoscenza. Nonostante tutto, la sua testimonianza è significativa in quanto non si basa sul “sentito dire”, ricamato, magari, di Poetiche Immaginazioni, Finzioni. Essa nasce dalle imperiture cicatrici fisiche e spirituali che hanno segnato, indelebilmente, la sua capacità di lucida evocazione dell’ immane suo vissuto in guerra. Ci sono, però, nel suo scritto, ancora, cascami di fastidiosa, noiosa retorica nazionalistica, retaggio della sua formazione culturale durante il regime fascista. Quante volte ella usa la parola “patria”, connotandola dell’uso e del consumo, ahimè, fascista! Le Propongo alcuni esempi: “Tutti i caduti sono degli eroi, perché hanno sacrificato la vita per la patria …Triste destino per coloro che si sono battuti per la patria essere abbandonati a se stessi, per forza maggiore, dai compagni  … Tutti i caduti, fascisti, antifascisti, non schierati sono uguali ché hanno avuto lo stesso ideale di patria…Andare in guerra è stato un dovere pagato a caro prezzo.”. Cos’è la “patria”, e – grege sig. Sorgente ? Filologicamente, “patria” significa “Terra dei Padri”, “tamen”, non abitanti di un’ “entità”, pure vaga, ma totalizzante il  loro “essere al mondo”, che avrebbe escluso altre “entità” abitate da altri padri, considerati inimici. I Padri erano abitanti del pianeta, sia pure di zolle del pianeta: il loco natio di ciascun abitante del pianeta non escludeva altri luoghi natii e i nativi di essi. Pertanto la “Patria” di ciascun Uomo era il Pianeta Terra, sì che tutti gli Uomini Erano e Si Sentivano, veramente, “Fratelli”. Dalla “Ginestra del Grande Giacomo, le Dono, e – grege sig. Sorgente, alcuni Versi: ”Nobil natura è quella /che a sollevar s’ardisce /gli occhi mortali incontra /al comune fato, e che con franca lingua, /nulla al ver detraendo, /confessa il mal che ci fu dato in sorte, /e il basso stato e frale; /quella che grande e forte /mostra sé nel soffrir, né gli odi e l’ire /fraterne… /…accresce /alle miserie sue, l’uomo incolpando /del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea ché dei mortali /madre è di parto e di voler matrigna.”. Costei, Dice Leopardi, è la Natura che con “un’onda di mar commosso”, con “un fiato d’aura maligna”, con “un sotterraneo crollo” distrugge popoli, civiltà, città potenti e ricche, sì che “avanza a gran pena di lor la rimembranza”. Allora che Fare ? Costei, Prosegue Leopardi, bisogna chiamare inimica e incontro a questa bisogna Confederare tutti gli uomini, “porgendo / valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce /della guerra comune.”. Inoltre, con l’eccessivo amore della propria zolla non si corre il rischio di essere ingiusti ed egoisti verso altre zolle? Emil Cioran Proclamava: ”Un uomo che si rispetti non ha patria” e  Giuseppe Mazzini non aveva remore nel  delineare la Profezia di ciò che nell’italietta sarebbe avvenuto dal 1925 al 1943: ”Finché, domestica o straniera, voi avete tirannia, come potete aver patria? La patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo.”. Sig Sorgente e -grege, quale il regime in cui ha trascorso la sua adolescenza e la sua giovinezza ? Lei e i suoi commilitoni non eravate considerati dagli ufficiali vostri “automi e schiavi”, che vi parlavano con le mani ai fianchi, tal “ducetti” imitatori del “dux” di “piazza Venezia” ? Non S’affievolisce l’Amore per la nostra zolla, se con Esso Copriamo tutta la Terra, Fondendo in Esso tutte le zolle e Diffondendo il nostro Amore a tutto il genere umano. Un mio piccolo Alunno di un Paesino del Nuorese così Firmava il suo Tema: ”Del Rio (Nome di Fantasia) Francesco, abitante a Silanus, Nuoro, Sardegna, Italia, Europa, Mondo”. Povero Figlio, tutte le mattine doveva inerpicarsi per una strada che s’innalzava fino a 800 metri, alla cui sommità trovava, finalmente, la sua Scuola. Ai lati della strada erano piantate le Croci in ricordo di Giovani di Silanus che erano andati a morire sul Carso nella “prima guerra modiale”. Avrebbero Essi, certamente, voluto Vivere, invece, Loro malgrado, la “patria” di vittorio Emanuele III e dei padroni delle ferriere Li volle morti con la greca di eroi.

Pietro Aretino, già detto Avena Gaetano

pietroaretino38@alice.it 


Pubblicato il 14 Ottobre 2014

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