Cultura e Spettacoli

“Bisogna che questa guerra uccida la guerra”

La figura di Gaetano Salvemini, l’intellettuale molfettese vissuto tra il 1873 e il 1957, è centrale allo sguardo che Marco Ignazio de Santis getta su personaggi e vicende dell’Italia del primo Novecento. Tale sguardo costituisce l’oggetto di un testo pubblicato qualche settimana da Helicon Edizioni. Diviso in otto capitoli, l’uno indipendente dall’altro, il libro si presta ad una fruizione molto libera, come l’Autore ha piacere di precisare in apertura rivolgendosi al ‘benevolo’ lettore. Dal canto nostro abbiamo preferito l’ordine proposto. Un saggio acuto e vario, mai prolisso. La personale insofferenza verso D’Annunzio, l’esuberanza demenziale dei futuristi e gli strali goliardici di Giovanni Papini  e Ardengo Soffici pubblicati su ‘Lacerba’ sono solo alcuni dei tanti temi trattati. Su tutti si impone il tema del cosiddetto interventismo democratico. Come è noto, Salvemini, pur pacifista convinto, si dichiarò a favore dell’entrata dell’Italia nella Grande Guerra nell’idea che ciò rappresentasse il male minore (“Bisogna che questa guerra uccida la guerra”). Coerentemente con questa convinzione, Salvemini, allora quarantaduenne e in mediocri condizioni di salute, presenta domanda di arruolamento. La domanda viene accolta. Dopo due mesi di frettolosa istruzione, col grado di Sottotenente di Complemento, viene spedito al fronte. Il Salvemini combattente giustificherebbe un tomo a sé. Attingendo da un materiale enorme, De Santis con apprezzabile capacità di sintesi asciuga in una trentina di pagine un’esperienza di vita non meno drammatica di quella, consumata nel 1908, quando in occasione del terremoto di Messina Salvemini perse la moglie, i cinque figli e una sorella rimanendo l’unico sopravvissuto della famiglia. L’impatto, tremendo, col quotidiano di trincea è documentato da una serie di missive spedite a Fernande Dauriac : “La trincea non è che una caldaia di fango e noi ci sguazziamo dentro fino ai capelli. Dormiamo in cuccette formate con sacchi di terra, naturalmente umida”. Sembra di sentir parlare Ungaretti e del soldato la cui vita è appesa al ramo come una foglia in autunno :  “La guerra è un gioco del lotto in cui si prende continuamente cinquina”. La retorica della guerra giusta e del bel morire si sgretola : “Chi proclama la bellezza e l’esteticità della guerra, vorrei che fosse sul monte che occupiamo nelle nostre trincee”. Perché questa è “guerra vera, non quella dei letterati”. L’orrore vuol dire stare “immobile o quasi nel fango, a vedere e sentir scoppiare  granate e shrapnels e miagolare palle… In tutto questo non c’è nulla né di grande, né di eroico”. La gratuità del “macello permanente” ispira accenti indignati : “Quanta nobile vita dissipata in quest’abisso infernale!”, scrive  all’amica Elsa Dallolio. Infine dalle colonne de Il Secolo tuona che la guerra vera “si combatte nelle trincee e non nei caffè o nei circoli sfaccendati”.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 26 Luglio 2019

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