“Che cosa non rivela l’ebbrezza?”
Nel 281 a.C., per contrastare l’espansionismo di Roma, i tarantini chiesero aiuto a Pirro. Si trattò di un grave errore politico, poiché escludeva che il principe epirota avesse secondi fini, ovvero sfruttare la debolezza della città ionica per mettere piede sull’altra sponda dell’Adriatico e allargare i propri domini. Ma già prima che delegazioni tarantine partissero alla volta dell’Epiro, qualcuno, fiutato il pericolo, aveva cercato di aprire gli occhi ai propri concittadini. Nel capitolo dedicato a Pirro del suo ‘Vite parallele’, Plutarco riporta l’episodio di Metone, aristocratico tarantino ‘dissidente’. Racconta lo storico greco che questo personaggio, non trovando risultati con l’uso del ragionamento (e forse perché minacciato), fece ricorso ad un autentico colpo di teatro : Si presentò ad un’assemblea cittadina, che si svolgeva in uno dei due teatri attivi a Taranto in quel periodo, come chi esca da un simposio. Ornato di una corona di fiori appassiti, reggendo una fiaccola, Metone si fece introdurre da un flautista. Quindi, simulando difficoltà nel mantenere la stazione eretta e la parola sciolta, si abbandonò a un monologo nel quale i tarantini venivano esortati a godere degli ultimi giorni di libertà prima dell’arrivo non di un liberatore ma di un nuovo padrone. Dopo aver avuto breve ascolto, l’aristocratico venne cacciato in malo modo. A questo punto Metone scompare dalla scena, non se ne sa più nulla. Resta l’interrogativo sulla sua figura. Perché esporsi ai lazzi della plebaglia, perché una trovata così eccentrica? Viene da pensare che Metone, ritenendo Taranto destinata e senza rimedio all’assoggettamento greco o romano, voglia dire fra le righe che cedere a Roma rappresenta il male minore. Ma, buon conoscitore del proprio popolo e consapevole dell’inutilità di qualunque predicozzo, opta per un gesto di dissidenza tanto acuto quanto prudente. Quel fingersi brillo è un modo per dire la verità senza correre rischi, salvo farsi cacciare in un coro di risatacce, fischi e pernacchie. Come un buffone di corte, sa che il ‘vestito’ che ha scelto di indossare lo mette al sicuro da qualunque ritorsione. Un gesto, il suo, anche ironico nel riferimento al vizio (il vino) nel quale si ottunde quella plebe che ciecamente vuol consegnare la patria tarantina ad un padrone infido come Pirro, piuttosto che assimilarsi ad un popolo – quello romano – di ben superiore caratura culturale. Insomma, ‘in vino veritas’, avrebbero sentenziato più avanti i romani. A tale proposito Orazio in ‘Ars poetica’ scrive : “Che cosa non rivela l’ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste…” e altrove scrive che i re “torturano con il vino colui che non sanno se sia degno di amicizia”.
Italo Interesse
Pubblicato il 7 Agosto 2018