Cultura e Spettacoli

Chi di spada ferisce, di rapastrello perisce…

Prima di Natale abbiamo parlato di un interessante ‘Lessico botanico molfettese’ a cura di Marco de Santis e Vincenzo Valente appena edito dal centro Studi Molfettesi. Un’opera ricca di spunti inattesi. Vediamo che si dice a proposito di ‘rapéste’, ovvero il Raphanus Raphanistrarum, altrimenti detto rapastrello o rafanistro. Si tratta di una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Brassicaceae dai cui semi si può ottenere un olio commestibile. Le sue foglie impiegate per un decotto svolgono un’azione antireumatica e stimolante della funzione gastrica. Possono anche essere mangiate, ma solo in insalata e insieme ad altre verdure avendo un gusto così pungente che se ne può addirittura ricavare un salsa sostitutiva della senape. Questo gusto ‘pronunciato’, impensabile considerando l’innocente candore del fiore del rapastrello, spalanca le porte a inattese rivelazioni. Perché a Molfetta si dice . ‘Avé na rapéste!…’ per dire che patirai una cocente punizione? Per capire bisogna tornare indietro di qualche millennio. Ad Atene (e a dirlo sono Alcifrone in Lettere II e Aristofane in ‘Le Nuvole’) l’amante colto sul fatto era alla mercé del coniuge tradito. La legge consentiva al ‘cornuto’ massima libertà d’azione : egli poteva ammazzare il traditore come costringerlo ad un risarcimento in denaro oppure a subire la pena del rapastrello. Si trattava di sodomizzare il malcapitato con le radici della pianta in questione (e siccome nelle radici si concentrava tutto il potere urticante della pianta…). Anche a Roma esisteva una pena analoga ; viene ricordata da Catullo nei ‘Carmina’.  Ciò che non è dato sapere è il luogo in cui avveniva… l’esecuzione. Si approntava un patibolo sicché la vendetta avveniva ‘coram populo’ oppure tutto si svolgeva in privato? E alla sodomizzazione chi provvedeva, una specie di boia o lo stesso danneggiato nell’onore? Chissà poi le conseguenze della brutale pratica. Circa il primo interrogativo ci pare più probabile la platealità del gesto. Specialmente i romani avevano gusti ‘piccanti’. Se andavano al Colosseo a vedere leoni che sbranavano bimbi cristiani, non avevano motivo di rinunciare al diletto di una pratica che coniugava la sofferenza alla totale soppressione della dignità. Per lo stesso motivo non si può escludere che il cornuto fosse in diritto di reclamare tutto per sé il piacere di punire il colpevole (che, ancora in termini capitolini, è un po’ dare a Cesare quel ch’è di Cesare). E infine, che ne era del ‘rapastrellizzato’? Se la cavava con la madre di tutte le umiliazioni, per non dire della ‘focosa’ reazione allergica, o gli spettava la stessa pena della donna, ovvero il taglio della testa? E’ da credere che la pubblica sodomizzazione fosse ritenuta ‘soddisfazione’ sufficiente, tanto più che è facile immaginare la stessa pena come preludio al suicidio o all’autoesilio definitivo del malcapitato.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 9 Gennaio 2015

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