Cultura e Spettacoli

“Copiosissimo sangue denso e lento a sciogliersi”

In era precristiana, in Puglia si praticava la pesca del tonno. Ne parla in uno dei suoi tanti studi, Filippo Briganti, un patrizio gallipolino vissuto nel Settecento. Ai nostri progenitori, gli Japigi, egli scrive, non era sfuggito che alcune specie di pesci caratterizzate da una forte gregarietà usavano radunarsi in certi tratti di costa per deporvi le uova. Tra queste specie, per qualità delle carni, imponenza di branchi ed esemplari, spiccava il tonno. Così, con ritrovati rudimentali, i primitivi abitatori della Puglia impiantarono le prime tonnare. Si trattava di tonnare fisse, consistenti in un complesso di reti sostenute da pali che, disposte ad imbuto, convogliavano i branchi verso quelle insenature dove era facile intrappolare le prede. Quando finivano in quella specie di vicolo cieco, i tonni venivano catturati con grossi ami o lunghe aste armate ad arpione. La lavorazione avveniva in loco, dando vita probabilmente un vivace commercio del prodotto finito, una volta trovato come predisporlo al consumo differito. Nell’era moderna questa primordiale forma di pesca ‘d’attesa’ evolse nelle forme della tonnara ‘volante’ Questo metodo di pesca era praticato lontano dalla costa per mezzo di un complesso mobile di reti che venivano calate da barche disposte a triangolo, ma con un lato aperto (quello opposto al senso di navigazione). S’immagini allora la pazienza, la tenacia e la fatica richiesta a uomini costretti a ‘setacciare’ a forza di remi specchi d’acqua affidandosi unicamente all’esperienza e alla vista acuta dei compagni issati in cima all’unico albero di queste imbarcazioni. Quando finalmente i tonni venivano individuati, la piccola flotta manovrava in modo da porsi sulla verticale di rotta del branco. A quel punto il capo flottiglia comandava di calare le reti e rallentare gradatamente il ritmo di voga mentre l’angolo del vertice si allargava per intrappolare la preda. Una volta che i tonni erano caduti in questa specie di imbuto, il lato aperto della formazione si richiudeva e allora cominciava la mattanza. Nel suo ‘Itinerari salentini’ (1959), Dino Ascalone descrive così le cose : “Fu tutto un contorcersi, fremere, sbattere tremendo che ci investì d’acqua e di schiume ammollandoci”. Viene il momento dei marinai : “chi reggeva la rete, chi armatosi di apposito arnese, ramponava, agganciava, sollevava le prede, rovesciandole entro bordo aiutato dai compagni, quando si trattava di esemplari troppo pesanti. Lo spettacolo incrudelì, dalle ferite dei grossi tonni disarpionatisi, prese a uscire copiosissimo sangue denso e rosso, lento a sciogliersi nel liquido salino; corse il massacro”. Un lavoro stremante anche per uomini già adusi alla dura fatica del mare, eppure “la mattanza strappava loro di dosso ogni stanchezza, indemoniandoli”. Oltre che pescato, il tonno in Puglia era anche inscatolato. Ancora nel primo Novecento numerose tonnare erano attive sul versante ionico. Nessuna traccia di tonnare, invece, sulla nostra costa dell’Adriatico, mare avaro di tonni, salvo che in alcuni specchi d’acqua della Dalmazia, dell’Istria e di Trieste, dove fino al secolo scorso furono  attive circa quindici impianti.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 1 Settembre 2021

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