Cultura e Spettacoli

De Gravis indignationis rebus (2) (Motivi di Significativa Indignazione)

 

Maurizio Gasparri, vicepresidente del senato, in un “cinguettio” (“twitter”) indirizzato a giorgia meloni, ha sbagliato a/nel coniugare il passato remoto del verbo ”chiedere”. A dire il vero, la cosa non deve suscitare maraviglia alcuna, ché non è la prima volta e, certamente, considerato l’individuo in questione, non sarà l’ultima che il “verbo” di costui susciti, susciterà in futuro aspre polemiche. Eccolo il famigerato “twitter”: ”E’ vero che Giorgia Meloni è figlia della storia di destra (glossa mia: si vergogna l’uomo, dalla ‘u’ iniziale minuscolissima, di precisare che la sua storia, come quella della meloni, è una storia di adesione ai disvalori fascisti del ”msi” mazziero, nascosta in una indefinita storia di destra, cioè, ripulita dalla posticcia, finta conversione ai valoretti liberali in politica e liberistici in economia) e proprio per quello (prendo la matita rossa: “e proprio per quella storia”) a suo tempo chiesimo (prendo la matita rossa: “chiedemmo”) la disponibilità (prendo la matita rossa:  “a chi?”,“a/per fare cosa ?”). Maurizio Gasparri (la M e la G  maiuscola solo perché, per fortuna del soggetto, non ancora “de cuius, purtroppo, il di lui nome e cognome trovasi ad essere usato dopo il punto fermo), vicepresidente del senato (Non può non essere minuscola la ‘s’ di senato, se si pone mente all’italicume che lo sostanzia)! Il punto esclamativo esprime la mia Accorata Preoccupazione dello stato di salute politica, etica, culturale della repubblica italiettina, per non parlare della salute sua economica con l’erario nazionale, astronomicamente, indebitato, con i bilanci delle amministrazioni regionali, comunali e della rispettive partecipate in profondissimo rosso. Inoltre, quale fiducia, ormai, riscuotono più le banche ? Quale fiducia gli italiettini possono nutrire nel loro futuro, se è messa in discussione, in forse, perfino, la tranquillità della loro vecchiaia dal momento che il putto fiorentino, per finanziare le sue elemosine a scopi, meramente, elettoralistici, “pro domo sua” (gli 80 euro, che non hanno alcuna incidenza positiva sulla disastrata precarietà economica delle famiglie indigenti; i 500 euro ai suoi bamboccioni, di padoaschioppana memoria,  per improbabili usi culturali da parte di essi. Miliardi che, se diventano briciole, quando si disperdono nelle mani dei milioni di singoli, potevano essere, più utilmente, investiti nella realizzazioni di necessarie opere d’interesse pubblico) minaccia tagli alle pensioni di chi, attualmente, le percepisce e drastici ridimensionamenti di quelle dei futuri pensionati, se, pur, negli anni a venire ci saranno pensioni e pensionati. Inoltre, corruzione dilagante in tutte le classi sociali; caccia alle poltronissime ai vertici dello stato e alle poltroncine nei piccoli e piccolissimi enti locali, ad onta del tanto, da tutti i lanzichenecchi dell’italico politicume, declamato, “sed”, giammai, praticato, “potere come servizio” alla Comunità che, poi, si riduce alla famiglia o alle famiglie, spesso, in odore di atteggiamenti mafiosi, ai famigliari, ai famuli, ai clienti. “More gentium romanarum”! E inarrestabile il declino culturale, indefettibilmente, originato da una scuola nella quale, per farla breve, si coltiva, parossisticamente, il parascolastico, cioè, quanto deve stare accanto a ciò che, ineludibilmente, è lo scolastico: leggere, scrivere, far di conto nella scuola dell’obbligo; i contenuti programmatici dei vari indirizzi di studio nelle superiori. Invece, assecondando l’imbecille vanità delle papine e dei mammini italioti del XXI secolo, per i “balilla”,  preadolescenti e adolescenti della “buona scuola” renziana, ogni aula scolastica viene trasformata in una “location” di “casting” in vista degli innumeri “zecchino d’oro”, che il dirigenzialume degli istituti comprensivi e degli istituti superiori s’inventa, in consonanza con le finalità dell’attuale politica scolastica: la scuola italiettina aperta all’ignoranza che non permette, che frena la mobilità sociale: lo “status” di  elevato rilevo sociale determinato dai magnanimi lombi di familistica appartenenza, non dal Sapere, dalle Competenze, non dal Pregio di una Ricchezza Intellettuale Ineguagliabile. Quando la “zucca” è vuota, vuoto è il comunicare, il parlare; manca il dialogo e si moltiplicano i cori (in una scuoletta elementare di bitonto non s’impartiscono le “Institutiones” Grammaticali e Sintattiche, le Strutture su cui Si Forma l’Uomo e il Cittadino, ma i bambini sono costretti in un coro, dal quale si emettono all’unisono  grugniti, indotti nella loro ugola dal coreuta o dalla coreuta (un sopranetto, MI si dice) capo, sì che, inevitabilmente, quando diventeranno, malamente, adulti, il loro “grugnire”, sarà l’emettere il mantra, il tormentone, il pigro condensare in una locuzione di tendenza le interminate sfumature e il colorito variegato degli umani sentimenti. A far data dal ’68 del secolo scorso (ho decenni sulle spalle e non ricordo ondate di omogeneizzazioni, di omologazioni totalizzanti le esistenze nella gestualità, nell’apparire, nel relazionarsi, nel comunicare, quante se ne sono registrate dopo quella data, ovviamente, apparentate allo sviluppo, cogentemente disordinato, dei media, specie catodici. Non a caso Pasolini Parlò degli effetti schiavizzanti, soprattutto, sugli individui, culturalmente, inermi della telecrazia ai quali era, ormai, precluso qualsiasi autonomo discernimento su ciò che fosse più giusto e più utile per/ad essi e su come essi si fossero degradati nell’ essere i servi sciocchi di coloro che mandavano in onda gli ”imput”condizionanti il loro vivere, il loro rapportarsi agli altri e alla Natura) si possono immatricolare, inventariare, catalogare locuzioni che compattano in un freddo, astratto, asettico modo di dire la fantasmagorica “polisemia” di intenzioni, di voleri, di progetti, di istanze, di cause, di motivazioni, ecc.,ecc., ecc. Inizio con ”nella misura in cui”: sta per tanto…quanto; in rapporto al fatto che; solo nel caso che; nella proporzione in cui. Tanto fu l’uso e l’abuso di codesta loquela, anche per dare un enfatico  tono di sinistra al loro dire molto, per non dire niente, ché nient’altro erano, se non fottuti figli di papà, da giovani rompicoglioni incendiari e poi, come i loro padri, da vecchi, pompieri, per Parafrasare, Pitigrilli, i sessantottini la banalizzarono a tal punto da renderla, quasi, un fastidioso intercalare, messo alla berlina dal Regista Steno nel Film “Febbre da cavallo” (“Il momento è grave, nella misura, dice il protagonista, in cui il prezzo delle ova ha toccato vertici da capogiro, fagocitando l’inflazione secondo la logica alienante del consumismo…”). Si può ridere finché si vuole, ma tale, appunto, era il modo di concionare degli infanti rivoluzionari, “a monte” precursori e a “valle”, molti di loro, protagonisti degli anni di piombo. Sia “a monte”, in senso figurato significa che ”precede cronologicamente o logicamente” una certa situazione o un certo discorso; che “a valle”, in senso figurato significa che “segue cronologicamente o logicamente” una certa situazione o discorso, finirono come “nella misura in cui” per tracimare nel cesso della lingua comune, da essere l’orpello dello sbraitare politico sindacale nell’ ”autunno caldo” del 1969. A seguire, negli anni dopo il fatidico ’68 le abbuffate di: “niente” (che può assumere vari significati, se nel contesto della frase ha la funzione grammaticale di pronome indefinito, di sostantivo maschile, di avverbio) nell’”incipiare” qualsiasi discorso, per mettere a parte, forse, l’interlocutore, che niente di notevole, di interessante avrebbe dovuto, dovrebbe aspettarsi da una profferta di parole preceduta dalla precisazione di un probabile, limitato, banale contenuto di esse; un ”attimo, un attimino” (corri, mangia, stai zitto, ascoltami, ecc., ecc.,ecc. un attimo, un attimino) A proposito di un “attimo, di un attimino”, il Linguista Andrea de Benedetti, Autore di un Amabile Libello dal Titolo “La situazione è grammatica”, Ribadisce: ”Riconosco che come eufemismo serve per giustificarsi dei ritardi. Però penso che l’attimo sia un’unità di tempo abbastanza piccola per non dover essere divisa. Per non parlare di chi usa attimino come unità di misura diversa da quella di tempo: ’Metti un attimo di sale’ o ’serve un attimino di buon senso’ “. Maurizio Costanzo, per anni imperversante su “canale 5” con il suo programma, ha fatto scuola, diciamo, con il suo idioletto infarcito di ripetuti “non ci siamo fatti, non ci facciamo mancare niente”, per indicare i più svariati beveraggi da ammannire o, già, ammanniti agli sprovveduti consumatori delle sue idiozie, che tra l’altro sono gli stessi gustatori delle stronzate di sua moglie con il suo osceno, assolutamente, porno, indicibile “Uomini e Donne” (più aderente alle “miserabilia” delle immagini e del parlato nomarlo ”maschi e femmine”, minuscolissimi da poco, a dir poco!) infoltito di peni e vagine, anche, stagionate. E che dire della mareggiante propagazione del “punto” costanziano dopo una icastica frase lapidaria, ad esempio: ”Tu sei un cretino! Punto.”? Nel libro, testé Citato, De Benedetti  se la prende con espressioni che vanno di moda, comunque, a nulla servibili: ”Una comunissima? ’Quello che è’. Quante volte in tv abbiamo sentito: ‘E adesso passiamo a quella che è la classifica di serie A’. Oppure: ‘Mister, ci parli di quello che è il momento della sua squadra’. Si tratta di una piroetta sul nulla, perché nulla aggiunge al significato della frase. E’ un abuso, un inutile eccesso di parole elegantemente camuffato”. Continuando il nostro “iter” nell’allarmante omologazione linguistica degli italiettini, troviamo: l’ossessiva iterazione dell’avverbio “sicuramente”, dell’erompere esclamativo di “assolutamente, sì!, assolutamente, no!”, di espressioni quali: ”se la poteva risparmiare, se la sarebbe potuta risparmiare quell’incazzata, quella uscita”; “tale abito mentale non mi appartiene”;” senza se e senza ma”; dell’aggettivo “importante”, il cui utilizzo in certi ambienti merita un’opportuna delucidazione. Ebbene, l’aggettivo ”importante” ha un impiego strategico in campo medico. Infatti, i medici per non allarmare i pazienti e i loro famigliari della gravità, a volte, terminale di una certa patologia sfruttano l’aggettivo “importante” per non dire che il quadro clinico del malato è senza rimedio, incurabile o che la diagnosi è disastrosa o che è necessario un intervento che lascia adito a qualche speranza o molto rischioso, ecc., ecc., ecc. Dalla pratica, pietosamente, strategica di “importante” in campo medico, si passa a quella, miserabilmente, accidiosa, svogliata, fiacca del reticente “non dire” dei calciatori (universalmente, con imbecillità masochistica tatuati, orecchinati, come le “maitresse”dei meritori dismessi casini) e dei loro “coach”. Per cui: “importanti” sono: gli investimenti, i risultati, i giocatori acquistati, acquistabili, la crisi societaria, i gesti atletici, la coppa vinta o da vincere, ecc., ecc., ecc. Termino la mia Disamina dei luoghi comuni costumati dagli italiettini con: “Ci metto la faccia”, per dire: ”Mi espongo in prima persona, mi assumo le mie responsabilità; per patrocinare una certa iniziativa, per sponsorizzare un certo prodotto, per raccomandare un certo candidato. Pensate, o miei cari 25 Lettori, fu flavia vento, la più sgarrupata delle showgirl catodiche, che MI educò a decrittare una faccia, quando in televisione espose la sua per motivare la sua fallimentare candidatura ad una tornata elettorale. Da allora in poi, quanti, compreso il primo condòmino di un borgo selvaggio e il suo cortegiano preferito, MI hanno scoperto la loro faccia da…culo! Con: “piuttosto che”, il cui senso appropriato è: ”invece che, rispetto a”. Tuttavia, lamenta De Benedetti: “… secondo una moda rapidamente propagatasi dal Nord Italia…al resto del paese, si usa ‘piuttosto che’ come disgiuntivo, cioè col significato di ‘oppure’“. “Possiamo andare al cinema ‘piuttosto che’ (oppure) a teatro”. Si scomoda, inoltre, ancora erroneamente, “piuttosto che” col valore semantico di “oltre che” “Al mercato potrai trovare pomodori, piuttosto che (oltre che) melanzane”. Con: ”essere sul pezzo”. M’Imbattei, per la prima volta, con codesto mostriciattolo espressivo, ascoltando una televisiva conferenza stampa di pioli, il tecnico della “Lazio”. Qualcuno dirà che sono, decisamente, stato sfortunato, se sono stato  sollecitato ad accorgerMI dei tormentoni linguistici degli italiettini da “maitre a parler”, come la vento e pioli! In ogni caso,”stare, essere sul pezzo” nasce nel gergo produttivo industriale: stare al lavoro, al pezzo della catena produttiva a cui si lavora. Per traslato, la semanticità della becera espressione si amplia a: essere all’avanguardia, lavorare con zelo e dedizione, essere aggiornati, al passo con i tempi, in anticipo, essere impegnati, avere tante cose da fare, ecc.,ecc., ecc.”. Con: ”Empatia”, che è la Capacità di Comprendere, appieno, lo Stato d’Animo Altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Non si può ridurre l’ ”Empatia” a sinonimo di facile “simpatia” e tanto meno al minimale ”mettersi nei panni altrui”. Mentre, “andare verso l’altro, o portare l’altro nel proprio mondo”, è Essere in una Condizione Psicologica Empatica con l’Altro. “Sic stantibus rebus”, o miei 25 Lettori, vi pare che, con la egoistica ”frascicaccia” individualistica, di cui siamo dai tempi e dagli insiemi sociali infettati, possiamo, così facilmente, avere “a gratis” Proficua Dimestichezza con una Parola che ci Proietterebbe verso Forti Legami Interpersonali, innegabilmente, Foriera per noi di Catarsi e di Irrevocabile Rinnovamento Ideologico ed Esistenziale ?

 

Pietro Aretino, già detto Avena Gaetano         


Pubblicato il 22 Marzo 2016

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