Delitto Labriola: anche i medici vittime della malasanità
Molti operatori sanitari locali pur essendo ancora sconvolti ed addolorati dalla vicenda della psichiatra barese Paola Labriola, uccisa a coltellate da un suo paziente nel centro Sim (Servizio d’igiene mentale) di via tenente Casale, nel quartiere Libertà di Bari, si sono regolarmente presentati nei rispettivi ambulatori anche se fortemente perplessi e scettici nei confronti di chi dovrebbe garantire loro la sicurezza sul posto di lavoro. E, quindi, avrebbe dovuto fare in modo di prevenire quanto accaduto alla collega barese del presidio sanitario al Libertà. La vittima era molto conosciuta negli ambienti sanitari cittadini perché, prima di prestare servizio nella sede in cui è stata assassinata, aveva svolto il suo lavoro anche in altri centri Sim del barese. La dottoressa Labriola infatti era in organico al SSN da circa vent’anni ed in ambito cittadino, prima di essere trasferita a Bari nella sede in cui mercoledì mattina si è consumata la tragedia, aveva prestato servizio nell’ambulatorio Sim della ex frazione di Santo Spirito e successivamente in quello del quartier San Paolo, dove era già in cura l’uomo che l’ha uccisa. Da circa tre anni la professionista assassinata era stata assegnata al presidio di Bari città, nel cuore del rione Libertà. La tragedia – a detta di qualche collega della vittima – si sarebbe forse potuta evitare se i vertici dell’Asl di Bari avessero per tempo preso in considerazione le reiterate richieste di assicurare nel luogo di lavoro la sicurezza degli operatori sanitari, quotidianamente a contatto con pazienti difficili perché affetti da patologie psichiatriche. Richieste che puntualmente sono state sottovalutate e, quindi, lasciate cadere nel vuoto fino al recente tragico evento di cui è stata vittima innocente la dottoressa Labriola. “Evento che ora – rileva lo stesso collega – si vorrebbe forse far passare pure come un accadimento casuale ed inevitabile, quando invece episodi di tentata violenza e minacce agli operatori sanitari dei centri Sim, come pure in quelli presenti nelle sedi di Guardia medica e Pronto soccorso, sono all’ordine del giorno”. Alla luce di tali considerazioni non si può non constatare che la situazione di insicurezza in cui sono costretti a lavorare tali professionisti della sanità stride fortemente con gli “elevati livelli di protezione e blindatura” in cui lavora il vertice barese dell’Asl, al quarto piano del Palazzo sul Lungomare Starita, sede dell’ex ospedale Cto. Infatti, è notorio che l’accesso agli Uffici della direzione generale dell’Asl barese è presidiato costantemente da un vigilante, contrariamente a quanto avviene nei presidi sanitari a rischio, finora lasciati completamente sguarniti di qualsiasi, seppur minima, forma di vigilanza. Pertanto, se la direzione generale dell’Asl barese avesse garantito anche per i presidi sanitari a rischio la stessa sicurezza che garantisce ai propri Uffici, non sarebbe azzardato ritenere che la tragedia verificatasi nella struttura del VI distretto sanitario di Bari, con la presenza di un vigilante avrebbe potuto essere evitata. O, quantomeno, non avere una conseguenza così grave. Infatti, non ci risulta che la cronaca abbia registrato alcun episodio in cui qualche direttore generale di Asl abbia subito violenza nella propria sede di lavoro, mentre è piena di episodi che hanno visto i medici, o loro collaboratori, subire minacce ed aggressioni di vario genere. Ed ora, come di solito accade dopo ogni tragedia, sia le Asl che la Regione si sono accorte finalmente che il livello di sicurezza per gli operatori sanitari in Puglia non è affatto un aspetto irrilevante. Anzi, è fondamentale per il personale impegnato ad erogare i servizi sanitari, che ha diritto ad operare in condizioni di serenità e senza il timore di divenire bersaglio indifeso di utenti o criminali. E quindi, dopo la tragedia barese, in Puglia parlare di “malasanità” non significa soltanto disfunzioni e disservizi che si ripercuotono pesantemente sui pazienti, che non sono adeguatamente assistiti, ma significa anche disorganizzazione e negligenza che ha come vittime innocenti gli stessi medici altrettanto non tutelati nell’esercizio della professione.
Giuseppe Palella
Pubblicato il 6 Settembre 2013