Cultura e Spettacoli

E da sette rimasero in cinque

Quando vennero scoperte – era il 1960 – erano sette, ora sono cinque. Stiamo parlando di colonne monolitiche di era romana che giacciono affiancate su un fondale sabbioso alla profondità di quattro metri all’altezza di Torre Chianca, una località dello Jonio salentino non lontana da Porto Cesareo (nei giorni in cui il mare è particolarmente calmo e trasparente, le colonne sono visibili anche dalla superficie, per chi solchi quel braccio di mare a bordo d’un’imbarcazione). L’unica spiegazione che si riesce a dare alla cosa è che due di quelle colonne siano sprofondate nella sabbia per un cedimento del fondale. D’altra parte, si può credere che siano state trafugate? Un conto è immaginare subacquei che razziano cose di dimensioni limitate, un altro è immaginare chiatte munite di gru che cavano dal fondo colossi lunghi nove metri con un diametro variabile fra i 70 e i 100 centimetri e un peso di alcune tonnellate. Una cosa che non sarebbe sfuggita a nessuno. La sola cosa certa a proposito di questa faccenda è che quelle colonne facevano parte del carico di una nave oneraria naufragata. Da dove venivano quei manufatti, quale destinazione avevano, chi i loro committenti? Si ipotizza provenissero dalle cave di Karystos, all’estremità meridionale dell’isola di Eubea. Considerando poi le dimensioni, e l’alta qualità della pietra (marmor carystium o marmo cipollino, un materiale di colore grigio-verdognolo dalle delicate venature ondulate e tortuose) è da escludere fossero destinate a ornare la casa di un pur facoltoso patrizio. Forse dovevano sostenere l’architrave di qualche importante tempio o edificio pubblico da elevare nella capitale ; in questo caso il committente non poteva che essere uno dei due tra Imperatore e Senato. Tuttavia, hanno fatto osservare alcuni, le colonne si presentano grossolanamente lavorate ; per esempio, le classiche scanalature verticali, pensate per dare slancio, risultano appena abbozzate (al presente sono ricoperte da organismi incrostanti, per lo più alche verdi e qualche spugna). Come potevano colonne in quelle condizioni essere destinate ad una costruzione sontuosa? Qui però si dimentica un cosa : era antieconomico trasportare colonne già rifinite, atteso il rischio di scheggiature o fratture che quei manufatti potevano rimediare durante il trasporto, per non dire della possibilità di un naufragio. Quelle colonne erano prodotti semilavorati, diremmo oggi. La rifinitura avveniva solo a destinazione dal momento che gli scalpellini non lavoravano nelle cave. Del relitto della nave, non resta nulla. Quel po’ di ‘cocciame’ (frammenti di anfore e laterizi) che si presentava sparso sul fondale intorno alle colonne è oggi conservato presso il Castello Aragonese di Taranto.

Italo Interesse


Pubblicato il 19 Dicembre 2017

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