Cultura e Spettacoli

Ezia, la parola oscura

Abbandonata dal fidanzato, Ezia sfoga il magone camminando senza sosta per le vie accompagnata dalla derisione del prossimo. Cerca ancora l’amore, che non trova, non troverà più. Sicché alla fine si riscoprirà stanca e sfatta, delusa e incredula di una vita sciupata e non più recuperabile. Questo il tema di ‘E’ Bal’, un divertissement di Nevio Spadoni composta in un romagnolo strettissimo, tanto musicale quanto incomprensibile. Opportunamente, nella messinscena di ‘E’ Bal’, che ad opera di Teatro delle Albe è stata in cartellone al Nuovo Abeliano la settimana scorsa, l’interpretazione di Roberto Magnani è sostenuta da un display su cui scorre la traduzione. Magnani è un narratore decisamente sui generis. Rigido davanti al microfono, un po’ goffo, stretto nel suo abito della domenica, sembra il Valentino “vestito di nuovo” uscito dalla penna del Pascoli. Con trasporto narra di questa Ezia tutta chiappe e zizze che va dimenando le sue grazie per le vie mentre quelle buone carni dei paesani le ridono dietro, le danno la baia, le sparano cattiverie. Magnani dice, scende nei dettagli e man mano i contorni di questa donna sfumano in quelli di una leggenda da paese e contrade limitrofe. Ezia diventa l’archetipo della ragazza da marito senza fortuna, l’agnello sacrificale, il parafulmine di un’ansia tutta rosa di restare al palo. Una figura tenera, anche buffa, che mette simpatia e merita rispetto e il cui corrispondente maschile potrebbe essere proprio il suo cantore. Magnani racconta l’epopea di una donna maledetta, ora dalla prospettiva d’un forestiero, ora da quella d’un paesano mordace e ingiusto, ora da quella della stessa povera Ezia. A sottolineare il pathos provvedono gli interventi musicali di Simone Marzocchi il quale alla tromba, spesso usata in modo improprio per cavarne suoni smorzati e ‘inghiottiti’, alterna echi metallici prodotti percuotendo, accarezzando, facendo stridere con un chiodo una lastra di acciaio oppure la lama di una grossa sega arrugginita. Non bastasse, da una macchina da cucire a pedale ‘modificata’, il cui pedale  sfrega una corda da chitarra sospesa su una tavola di legno, Marzocchi ricava un suono ciclico che sembra dare voce all’inesorabilità del tempo, alla fragilità umana, all’insensatezza del creato. Tutto ciò, sottolineato dal buon disegno luci di Fagio, s’impone come la cosa più bella di questo allestimento. Quanto al resto, il testo di Spadoni merita attenzione e Magnani si conferma bravo. Tanto però non basta. Stante l’impossibilità di apprezzare il testo sul piano linguistico, l’inevitabile schiavitù del display sminuisce lo sforzo produttivo e vanifica il senso dello spettacolo, sicché tutto si riduce alla fruizione un po’ ossessiva di un testo per il tramite di uno schermo a cristalli liquidi.

Italo Interesse

 

 


Pubblicato il 4 Aprile 2018

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