Cultura e Spettacoli

Fattacci e ‘damnatio memoriae’

 

Fra i primi film di successo girati in Puglia, quello che più fece notizia resta ‘Non si sevizia un paperino’, una pellicola diretta da Lucio Fulci nel 1972 e realizzata sul Gargano fra Monte Sant’Angelo, Foresta Umbra, Santuario di San Michele Arcangelo ed eremo di Pulsano. Ancora oggi non tutti sono d’accordo a proposito di questo giallo-thriller prodotto dalla neonata Medusa Film e forte di un cast di caratura internazionale : Florinda Bolkan, Barbara Bouchet, Irene Papas e Tomas Milian. Guardato con gli occhi di oggi, ‘Non si sevizia un paperino’ è accostabile al genere splatter per abuso dell’orripilante. All’epoca invece si parlò di cattiva imitazione di quel genere poliziesco che in Italia sbancò nella prima metà degli anni settanta. Ma di recente parte della critica l’ha rivalutato parlando di “apice della maturità creativa di Fulci”, di “perfetto equilibrio degli elementi narrativi” e di “ambientazione del tutto inedita per il cinema italiano” per il fatto che la vicenda è ambientata in un retrogrado e anonimo paesetto del Mezzogiorno. Se la verità sta nel mezzo, ‘Non si sevizia un paperino’ è opera inquietante e morbosa, ma a tratti accattivante. Tanto squilibrio può essere giustificato dal fatto che all’epoca della ‘prima’, l’opinione pubblica, specie qui in Puglia, era ancora scossa per gli spaventosi fatti occorsi a Bitonto tra il 1971 e il 1972 (fatti dai quali il soggetto del film di Fulci avrebbe tratto ispirazione). Nel cinquantenario dell’inizio di quella tragedia ci sembra giusto dare un cenno di un fattaccio di cui, stranamente, si è sempre parlato poco, a differenza, invece, del non meno tragico caso di Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina che nel 2008 vennero ritrovati morti all’interno di una cisterna della città vecchia, in cui, vittime forse di un gioco tragico, erano caduti due anni prima. A Bitonto tra il settembre del 1971 e il giugno del 1972 cinque bambini, di cui il più piccolo contava trenta giorni e la più grande quattro anni, vennero trovati annegati nelle cisterne in disuso raccolte in una determinata zona della città vecchia. Tale zona rappresentava allora il buco nero del centro storico, facendo da ricettacolo ai cosiddetti ‘truscianti’, un grosso clan famigliare i cui componenti vivevano di elemosine, piccole truffe e furti. Già dalle prime indagini emerse che il colpevole o i colpevoli andavano cercati all’interno di quella comunità compattata da un groviglio di parentele e tendenzialmente omertosa. Nessuno avrebbe parlato. E così fu, difatti. A tre distinti procedimenti giudiziari corrisposero altrettante sentenze d’assoluzione. Rimasto insoluto, il giallo di Bitonto scivolò nell’oblio. Ancora oggi chi ricorda, preferisce tacere. Qualcosa che somiglia ad una lobotomia della memoria collettiva. I Romani parlavano di damnatio memoriae.

 

Italo Interesse

 


Pubblicato il 31 Marzo 2021

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