Cultura e Spettacoli

Giorgio Pigliacelli, ingiustamente escluso

A Bari sono state intitolate a Mario Pagano la via che collega Largo Crispi a via Dante, a Ignazio Ciaia il largo compreso fra corso Benedetto Croce e Viale Unità d’Italia e a Domenico Cirillo la strada che congiunge le vie Amendola e Pisacane. Un riconoscimento dovuto, rientrando questi personaggi fra i 124 rappresentanti della Repubblica Partenopea giustiziati dal Ferdinando IV una volta ripreso il potere. Ma fra quei 124 c’era anche Giorgio Pigliacelli, giurista insigne, che salì al patibolo lo stesso giorno con Pagano, Ciaia e Cirillo ; l’esecuzione avvenne a Napoli in piazza Mercato, tra le Stazioni ferroviaria e portuale. Era il 29 ottobre 1799, esattamente 217 anni fa. A Pigliacelli non perdonarono d’aver accettato prima la carica di Primo Giudice della Commissione Militare e poi quella di Ministro di Giustizia e Polizia. In qualità di magistrato si compromise rendendosi corresponsabile di una repressione spietata e sanguinaria a danno gli oppositori del regime. La sua condanna a morte, come quella di tutti gli altri, fu comunque dovuta al fatto che la Repubblica napoletana non era stata riconosciuta neanche dallo stesso governo francese che pure l’aveva sostenuta. Ciò metteva gli imputati nella condizione di non essere considerati prigionieri di guerra, con tutte le garanzie connesse (e difatti quei 124 furono giudicati come traditori da un tribunale penale). Fra i martiri di quel funesto 29 ottobre l’unico pugliese era Ciaia, nativo di Fasano. In tutto i figli della nostra terra vittime della efferata reazione borbonica furono otto. Oltre Ciaia, vanno ricordati Giuseppe Leonardo Albanese (Noci), Francesco Antonio Astore (Casarano), Ettore Carafa (Andria), Ignazio Falconieri (Monteroni), Nicola Fiani (Torremaggiore), Antonio Sardelli (San Vito dei Normanni) e, unica donna, Francesca De Carolis, di San Marco in Lamis. La fine di questa donna, che visse quasi sempre a Tito, in Basilicata, merita una breve digressione. Moglie di Don Scipione Cafarelli, un nobiluomo del luogo e madre di sei figli, Francesca abbracciò pubblicamente l’ideale repubblicano. Quando le truppe sanfediste al comando del cardinale Ruffo scatenarono la controrivoluzione, Tito si trovò assediata. A guidare l’assedio era un noto brigante, Gerardo Curcio, chiamato Sciarpa. Valentemente guidati dai coniugi Cafarelli, i titesi opposero una valida resistenza. Ma poi, grazie a un tradimento, gli assalitori ebbero la meglio. Smanioso di vendetta, Sciarpa sottopose la De Carolis ad un sommario processo al termine del quale la donna venne condannata a morte. Condotta in piazza, Francesca ebbe un’ultima possibilità : se avesse gridato ‘Viva i Borbone’ sarebbe stata graziata. Gridò invece ‘Viva la Repubblica, viva la libertà!’ e cadde crivellata dai colpi.

Italo Interesse


Pubblicato il 29 Ottobre 2016

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