Cultura e Spettacoli

“Giorno del ricordo”: storia e memoria di una tragedia dimenticata

I “Gulag” non esistevano solo in Unione Sovietica. I campi di concentramento comunisti, con la medesima sadica ferocia, si usavano anche nella Yugoslavia di Tito. “Goli Otok”, l’Isola Calva, ne fu l’esempio più atroce. Tra il 1948 e il 1953 fu un campo di lavori forzati (chiamati “socialmente utili”) e “rieducazione” attraverso cui passarono 30-40.000 prigionieri accusati di essere cominformisti o semplicemente antititoisti. Ne morirono oltre 4.000. Come per contrappasso dantesco fu la destinazione dei “controesodanti” italiani e dei cominformisti istriani che avevano scelto la Yugoslavia di Tito mentre i loro conterranei che avevano scelto di rimanere cittadini italiani partivano per fuggire alle persecuzioni. Milovan Gilas, controverso personaggio della Yugoslavia comunista, prima braccio destro di Tito e poi dissidente, disse di Goli Otok: “E’ la nostra macchia più vergognosa”. Concepita su modello sovietico si fondava sul principio della delazione e della gerarchia tra i detenuti che poneva più in alto chi dimostrava di essere “rieducato”. In pratica sopravviveva chi picchiava più forte i propri compagni e si dimostrava più infame verso di loro. Il sistema fu ben descritto da Andrea Scano, un comunista sardo venuto a Fiume col controesodo e detenuto a Goli Otok dal 1949 al 1952 per conformismo: “Gli udbisti (quelli dell’Udba, la polizia titina che aveva sostituito l’Ozna) neanche li vedevi. L’Udba si limitava alla direzione del lager, tutto il resto era gestito dal ‘collettivo’ degli stessi prigionieri, organizzati come un partito guidato da un comitato direttivo del campo, di cui facevano parte i capi baracca con i rispettivi comitati e relativi attivisti di base”. Il sistema rodato era sempre lo stesso: i detenuti arrivavano a Goli Otok legati, due a due, col filo di ferro ai polsi, a bordo di una vecchia nave arrugginita, il “Punat” nella cui stiva venivano caricate fino a trecento persone. Nei giorni precedenti erano passati per le carceri di Fiume, tra interrogatori, pestaggi, torture, in celle anguste senza brande e piene di pidocchi. Partivano la notte da Buccari ed arrivavano al mattino presto. Il benvenuto a Goli Otok era lo “Stroj”, una sorta di lungo serpentone umano composto dai detenuti disposti su due file parallele, che partiva dal molo ed arrivava fino alla collina del campo, in cui i nuovi arrivati dovevano entrare e correre scalzi, per arrivare fino in cima mentre venivano bastonati a sangue dagli stessi prigionieri. Cosi lo descrisse Giannetto Stuparich di Lussino: “In quella specie di tunnel i malcapitati subivano un pestaggio feroce che non cessava un istante, dal principio alla fine bestemmie, sputi, calci, pugni. Vidi cadere molti per terra sotto i colpi ricevuti e, purtroppo, non arrivarono alla fine. I picchiatori urlavano senza posa come folli “Uà banda !Abbasso, a morte i traditori, a morte gli stalinisti”. Uno dei picchiatori mi afferrò e mi trascinò in quel tunnel della tortura. Cominciai subito a sentire i colpi sulla schiena e sulla testa, mi pareva di non farcela più. Tentavo di camminare il più presto possibile, ma le gambe si facevano sempre più deboli, la testa mi girava, le gambe tremavano, non potevo quasi respirare. Poi all’improvviso lo strazio finì: mi parve un miracolo. Non so come avrei potuto resistere un istante ancora”. I prigionieri vivevano in 24 baracche con dei tavolacci stretti a tre piani su cui si poteva dormire solo di fianco. La rieducazione avveniva attraverso il lavoro “socialmente utile scandito dal grido continuo e ossessivo che i prigionieri dovevano ripetere inneggiando al dittatore “Tito partija! Tito – Partija!”. Un altro testimone, Sergio Borme di Rovigno, raccontò: “Eravamo obbligati a trasportare carichi pesanti: era solo una tecnica per stremarci. Passavamo massi di pietra da un luogo all’altro, senza alcuna ragione otto o dieci ore al giorno sotto il sole o la pioggia, immersi fino al collo nell’acqua del mare a spalare la sabbia, ma il peggior supplizio era la fame”. Molti morirono di stenti o di dissenteria, altri di tifo, di insolazione, di sete, di percosse. La tortura più temuta era il “Boikot”: la subivano quelli che non avevano picchiato abbastanza i compagni e dunque non erano ravveduti o avevano commesso una qualche infrazione, o piuttosto per la delazione di qualcuno. Venivano processati dal capo baracca e costretti allo “Stroj” fuori dalla loro stessa baracca. Ai boicottati veniva imposta una camicia nera che era il segno che avevano perso ogni diritto e chiunque li poteva picchiare senza un motivo. La notte il boicottato doveva fare la guardia al secchio delle feci dopo che il capo gli aveva immerso la testa nel “Kibla”, l’orinatoio della baracca. Mario Quarantotto, rovignese, tornò per la seconda volta a Goli Otok dopo la prima rieducazione e si rifiutò d’indossare la camicia nera e i pantaloni con la striscia rossa previsti per i “bimotori” (così chiamavano i ritornati): lo bastonarono tanto selvaggiamente che morì. Il suo corpo fu gettato in mare. Alla famiglia, dopo anni di silenzio, fu consegnato un referto che accertava la “morte per insolazione”, senza altre notizie sulla sepoltura. E come ve ne potevano essere? Un altro sopravvissuto, Emilio Tomaz di Montona, era responsabile della sezione agricoltura e cooperativismo de “La voce del popolo”, il giornale (comunista) degli italiani di Fiume. Cominformista, fu deportato a Goli Otok ma fortunatamente senza perire. Dalla sua testimonianza di “rimasto” apparse amaramente pentito del suo passato e divenuto fervente cattolico confessò: “Io rimasi, avevo un’idea sbagliata, un’illusione, pensavo che il comunismo volesse dire fratellanza tra i popoli, andare tutti d’accordo. A Montona, mio paese d’origine, vedevo scappare tutti ed io, che credevo di essere comunista, dicevo loro: “Non andate via, non lasciate la vostra terra” ma la gente continuava a fuggire. Se ne andavano, cantando “Montona resta sola con sti quatro disgraziai”, ma non è vero che rimasero solo i comunisti, molti anzi sono rimasti perché amavano la terra di origine. Potrei farei nomi di tanti, di gente che vive qui e che ha preso le legnate perché si dichiarava italiana. Quanti di quelli che optarono per l’Italia furono bastonati anche a morte! I titini venivano di notte a bastonare la gente nelle case o li facevano sparire nelle foibe. Io ho visto l’esodo, ho visto uccidere anche un prete a Lanischie, so benissimo chi infoibava la gente. Tanti conoscono fatti e nomi che non hanno mai avuto il coraggio di raccontare. Io vedevo, al mio paese, le angherie contro gli italiani, le spie contro chi seguiva la dottrina, le scritte solo in croato. Denunciai questo stato di cose e venni subito espulso dal partito, dissi che quella di Tito era una dittatura e come cominformista fui arrestato nel 1949 e passai 32 mesi a Goli Otok. Ne uscii, distrutto, nel 1952. Fu un’esperienza tragica: io non ho sentito raccontare da nessuno, in altri luoghi del mondo, di prigionieri costretti a scannarsi ed uccidersi tra loro come avveniva lì a Goli Otok. Quando entrai fui costretto a passare di corsa a testa bassa tra due lunghe file di prigionieri che mi ruppero le costole a calci e bastonate. Così avveniva per tutti quelli che entravano a Goli Otok. In molti morirono. Si moriva di legnate, sofferenze, stenti, fame; nei miei ricordi si alternano brutali scene di sangue, il tifo petecchiale, i pidocchi, le baracche di legno, il 4 B che era il mio gruppo, il campo R 101 che era per i colonnelli, i generali e gli intellettuali. Quello che hanno fatto i comunisti è spaventoso, hanno seminato violenza e morte. lo amo l’Italia, è la mia Patria, la mia terra, la mia lingua; è un peso morale terribile quello che mi porto dietro. Anch’io tentai di andarmene, era il 1960 e venni in Italia, ma dopo due mesi di campo profughi mi rimandarono indietro. Non so perché ma forse è giusto cosi: adesso il senso di queste mie giornate è lottare per i miei diritti nazionali e religiosi. Il comunismo ha tentato di distruggere l’elemento cattolico, ma la chiesa è sempre piena. Tutto quel che ho passato è niente di fronte all’eternità, per uno che ha fede. Io l’ho ricevuta dopo ma ora è la ricchezza più grande. “Mi resto qua e son contento de podér ancora vardàr el sol che lusi e la neve che casca”. Non so per quanto tempo ancora abbia potuto vedere il sole e la neve. Ma non ho mai dimenticato i suoi occhi, che ormai guardavano oltre…” Così narra uno dei capitoli più cruenti del libro di Roberto Menia – padre della legge del 30 marzo 2004 n. 92 –   “10 Febbraio: dalle Foibe all’esodo” che racconta, tra le altre cose, come il genocidio del popolo italiano da parte di Tito e le sue truppe fu una pulizia etnica premeditata nei minimi dettagli per colpire chiunque si opponesse alla sua sete di conquista, non solo fascisti ma gente comune, finanche i partigiani della Resistenza e del Comitato di Liberazione Nazionale. Un tragico destino che accomunò 22 mila italiani e 350mila esuli costretti a scappare dalle loro case per sopravvivere. Uno sterminio che, dopo anni di silenzi e negazioni, attende ancora una condanna unanime e una memoria condivisa. Negli anni ’50 la Puglia fu tra le prime regioni a rendersi disponibile per ospitare i profughi italiani. Nel Capoluogo, grazie all’intervento del Ministero degli Interni, nel 1956 furono costruite le palazzine del “Villaggio Trieste”, un quartiere situato tra lo Stadio della Vittoria e la Fiera del Levante. Ventisei palazzine per un totale di 316 mini appartamenti con i quali circa mille esuli ricominciarono a vivere dopo aver perso tutto. Si perché le terre e le case di proprietà degli italiani in Venezia-Giulia, Istria, Dalmazia, Grecia e in tutti quei territori del nord-est e delle colonie che fino alla fine del secondo conflitto mondiale appartenevano allo Stato italiano, furono cedute alla Jugoslavia e alle potenze vincitrici come indennizzo per i danni di guerra. Dopo 60 anni da quei terribili fatti è stato istituito il “Giorno del Ricordo” con il quale è possibile “Conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani, dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Nella giornata di domani presso il Villaggio Trieste diverse associazioni culturali hanno organizzato la consueta commemorazione, quest’anno nel pieno rispetto delle misure anti-Covid 19: alle ore 11.00  è prevista la deposizione di una corona d’alloro presso la targa dedicata in largo Don Policarpo Scagliarini mentre in serata, alle 19.30, si terrà una fiaccolata silenziosa in memoria dei martiri.

Maria Giovanna Depalma


Pubblicato il 10 Febbraio 2021

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