Cultura e Spettacoli

Giovanni, torero ‘matado’

Brancati ambienta il suo ‘Il bell’Antonio’ nella Sicilia del fascismo. Nella versione cinematografica del ’60 Mauro Bolognini sposta la storia in avanti di trent’anni. Con ‘Il mio Don Giovanni’(produzione DAAP Roma), più audacemente, Giuseppe Convertini spinge le cose ai giorni nostri, pur conservando al suo allestimento il colore un po’ vintage di un Mezzogiorno che pare sospeso nel tempo. L’esperimento funziona anche perché qui il personaggio del padre non muore sul terreno di battaglia (il talamo mercenario). Sopravvivendo, a differenza della moglie e quindi all’incontrario che in Brancati e in Bolognini, egli ha modo di confrontarsi con Giovanni, il figlio ‘degenere’, e di capirlo – forse anche di perdonarlo – in articulo mortis. Questo confronto padre-figlio è centrale al lavoro di Convertini, andato in scena qualche giorno fa al Teatro Italia di Carovigno. Don Pasquale (un vigoroso Riccardo Monitillo) è figura polemica e irriducibile ‘appostata’ a fior di quinta come un qualunque vecchio da borgo antico seduto su una seggiola in paglia davanti all’ingresso del suo basso. Senza eccezioni, ce l’ha col prossimo, che come suo costume Convertini rappresenta attraverso una (non certo breve) video-parata di personaggi velenosi, vanesi, ambigui… degni rappresentanti di una fauna umana dannosa e di colore spiccatamente paesano. Spassoso quanto convincente  l’avvicendarsi  sullo schermo di ragazze che, quasi un casting per ‘Amici’ o ‘Il Grande Fratello’, si apprestano all’assalto del ‘bel Giovanni’, mentre un po’ inquieta la sfilata dei testimoni omofobi. Lo schermo è un muro composto da candidi cartoni. In essi un figlio amorevole (un ben tormentato Daniele Tammurrello) conserva indumenti e altre cose di una madre scomparsa. Una donna però ancora presente in modo strisciante e tormentoso nella memoria di Giovanni.  La sofferenza del giovane somiglia a quella del toreador chiamato a ‘matare’ ma che, inetto alla violenza imposta dal ruolo, è destinato al sacrificio. Metafora indovinata del dramma di un Giovanni che, schiacciato dal peso del ‘dovere maschile’, trova nel pur salvifico amore omosessuale motivo di pubblica crocifissione. Perciò opportuno il richiamo alla Carmen di Bizet. Ma, dicevamo prima, siamo nell’era globale e ‘a ggente’ (per dirla alla Tina Pica) si è fatta più volubile. Che succede se Giovanni trasferendo il suo dramma sulla carta firma un best-seller? Succede che rientrando in paese, acclamato come un eroe, ritrova finalmente l’amore del padre. Struggente la scena finale . Giovanni autografa una copia del libro per il suo vecchio padre mentre sullo schermo, sulle note dell’irresistibile Mina di ‘Vorrei che fosse amore’, scorrono tenerissime le immagini di Giovanni bambino. La freschezza del quadro stempera il calore bruciante delle lacrime di un Don Alfredo, in fondo, felice. Un bel lavoro al cui successo hanno collaborato Maria Eugenia Verdaguer (aiuto regia), Maria e Palma De Giovanni (sartoria), Giuseppe Trinchera (foto di scena), Stefano Camera (audio/video/luci) e – sullo schermo – Caterina Carlucci, Anna D’Amato, Maria Giovanna Di Latte, Salvatore Errico, Onofrio Fortunato, Valentina Ignone, Monica Lamacchia, Annamaria Lanzillotti, Mario Liso, Franco Miccoli, Viviana Martucci, Carmen Morelli, Enza Marzio, Alberta Natola, Anna Maria Natola, M.Antonietrta Pagliara, Angela Santoro, Damiano Saponaro, Marilù Sbano, Gennaro Scaligeri, Alina Tamborrano, Angelo Turco,  Angelo Zurlo.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 28 Maggio 2014

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