I Romani e i mari – pattumiera
Per ‘campi di anfore’ (del periodo romano) si intende il caso di isolati concentramenti di anfore sul fondale marino. Queste ‘anomalie’ sono frequentissime nel Basso Adriatico a poca distanza dalla costa e a profondità variabili tra i 5 e i 15 metri. Esse segnalano che lì, in epoca imperiale, navi onerarie furono trascinate a fondo dall’improvviso ingrossarsi del mare, fenomeno assai frequente nel basso Adriatico, dove lo scontro dei venti balcanici con quelli che vengono dal nord Africa dà spesso vita a insidiosissime trombe marine. Ma dove fu naufragio non resta il relitto? E invece nelle vicinanze dei suddetti campi di anfore spesso non si vedono resti di imbarcazioni. Se una mareggiata disintegra una nave perché dovrebbe lasciarne intatto il carico?… L’unica allora è che la nave sia stata deliberatamente alleggerita del carico durante la navigazione. Una tecnica, questa, alla quale ai tempi della navigazione a vela si ricorreva per risparmiare almeno l’imbarcazione in caso di tempesta. E se il mare invece era una tavola? Vuol dire che si è voluto gabbare la Legge. Già ai tempi di Roma nei porti si pagava il dazio, a meno di scaricare la merce in calette discrete. E se mentre si naviga verso approdi ‘amici’ si profila all’orizzonte la sagoma di un’imbarcazione di vigilanza ‘fiscale’? Come oggi i contrabbandieri contrastano l’inseguimento delle motovedette della Finanza lanciando in acqua i loro carichi, gli evasori fiscali di ieri si sbarazzavano di scottanti partite di vino, olio o cereali ‘conferendole’ in acqua. Insomma, il mare pattumiera già in tempi non sospetti. I campi di anfore non vanno confusi con i ‘campi di cocci’, o ‘gruppi di anfore frammentarie’. Con quest’altra espressione vengono indicate le distese di anfore (ancora dell’era romana) ridotte in pezzi. Tali campi, a differenza dei primi trovano posti nei luoghi di approdo. Ciò fa pensare che in quei siti anfore venissero deliberatamente fracassate – sulla terraferma – e i cocci ‘conferiti’ in acqua (e ci risiamo col mare-pattumiera quando il pensiero ecologista era lontano secoli e secoli.). Forse su quelle rudimentali banchine si ripeteva ciò che avveniva all’Emporium romano posto sul Tevere, a pochissima distanza dal Testaccio. E’ quest’ultima una collinetta artificiale formata da, si calcola, 25 milioni di cocci di anfore. L’Emporium era allora il più grande porto fluviale del mondo. La quantità di anfore che vi veniva scaricata quotidianamente era impressionante. Chissà quante nei maneggi finivano col fracassarsi. Ma il numero di anfore andate a pezzi accidentalmente scompariva dinanzi a quello degli stessi contenitore andati in pezzi deliberatamente. Quando venivano scaricate le anfore contenenti olio, il prezioso contenuto veniva versato in capaci botti, che carri sollecitamente inoltravano verso le più disparate destinazioni. Poi, che fare dei ‘vuoti’? Se le anfore destinate al vino potevano essere sciacquate e riutilizzate, quelle destinate al trasporto dell’olio potevano essere riutilizzate solo dopo un’accuratissima lavatura, il che aveva il suo costo in termini di tempo, forza lavoro e sostanze sgrassanti. Un costo nettamente superiore al valore dello stesso contenitore. Per cui, come oggi facciamo con le bottiglie di vetro usa e getta, quelle anfore venivano fracassate e ammonticchiate. E così il Testaccio poté raggiungere la ragguardevole altezza di 35 metri. La stessa cosa, ma su livelli numerici infinitamente minori, accadeva nei approdi marittini, non esclusi, si capisce, quelli del nostro Adriatico.
Italo Interesse
Pubblicato il 9 Marzo 2019