I teatranti: da trincea o da Stato Maggiore
Al Duse è stato in cartellone uno spettacolo che difficilmente potrà essere dimenticato. ‘Se cadere – imprigionare – amo’, un lavoro di Andrea Cramarossa allestito da Teatro delle Bambole, trae spunto da un desolante fattaccio di qualche anno fa : un ragazzo viene sodomizzato dagli ‘amici’ con l’aria compressa e muore (una ‘ragazzata’ minimizzerà il difensore, uno scherzo senza fortuna, oseranno inveire i famigliari dei carnefici contro quelli della vittima). Pietosamente, Cramarossa oscura il fattaccio e ne racconta invece i ‘dintorni’, ovvero l’humus sociale da cui germogliano simili espressioni di pochezza umana. Lo fa senza mezzi termini, senza concedere sconti, incentrando l’azione intorno ad una madre snaturata – una vigorosissima Silvia Cuccovillo – e due figli disturbati (Federico Gobbi e Domenico Piscopo). Ambientato in una Bari da bassifondi, il dramma – questa storia di abbandoni, carcere, incesto ed omosessualità – veste le tinte del rancore, della brutalità, dell’efferatezza, della blasfemia. Gestualità, toni, mimica e parola hanno effetto di carta vetrata. Una storia acida, un circo degli orrori, un’esibizione di atrocità. Cramarossa ha calcato la mano? Avesse voluto ritrarre il ‘popolo’, si sarebbe potuto rispondere, sì. Ma qui di mezzo c’è alcun popolo. Qui di mezzo non è una Mamma Roma in un contorno di ruvidi ragazzi di borgata. Qui protagonista è quello che una volta si chiamava popolo ‘basso’, ovvero quel coacervo di ‘brutti, sporchi e cattivi’ destinato a restare irrecuperabili e non per un’infelice inclinazione genetica (Lombroso, no) bensì per una questione di ‘indole’. E scienza, ragione o carità nulla possono contro quel prepotente, inspiegabile e cattivo colore dell’animo che fa la differenza fra il fuorilegge e il mostro, fra l’uomo pur deviato e il bruto. L’opera di Cramarossa indubbiamente turba, studia come infondere inquietudine. Tale ricerca si spiega col fatto che questo, più che teatro moderno, di frontiera o di semplice denuncia, è teatro di ‘resistenza’. E la resistenza non può essere che estrema, disperata. Con la recente riforma del teatro quel po’ di denaro pubblico rimasto disponibile è destinato solo alle grandi strutture, i nebulosi TRIC (teatri di rilevante interesse culturale). Le piccole compagnie, quelle ‘indipendenti’, ostinate in una ‘ricerca’ che sia onesta, cioè autenticamente innovativa, sono destinate a vivere di botteghino o d’autofinanziamento. Il che non significa morire, piuttosto fare vita di trincea. Siamo nel centenario del terzo anno della Grande Guerra. Al teatrante da Stato Maggiore, al sicuro nelle retrovie, preferiamo quello eroico, ‘esposto’, silenzioso e ignoto da prima linea.
Italo Interesse
Pubblicato il 2 Marzo 2016