Cultura e Spettacoli

Il clown scosta il sudario

Il mito dell’italiano bonaccione e innocuo, tutto pizza e mandolino, quel mito già messo in dubbio dalla strisciante sfumatura ironica contenuta nel titolo di un famoso film degli anni sessanta : ‘Italiani, brava gente’  (di Giuseppe Masellis), è ora oggetto di demolizione da parte degli storici, a misura che documenti vengono desecretati. In ‘Italiani brava gente?’, un libro edito nel 2005 da Neri Pozza, Angelo Del Boca  ripercorre la storia nazionale in una sorta di libro ‘nero’ nel quale si denunciano gli episodi di guerra taciuti, rimossi o negati e che vanno dalle stragi della guerra di brigantaggio ai massacri compiuti in Cina nella campagna contro i boxer, dalle deportazione e agli eccidi in Libia a partire dal 1911 sino alle più recenti ‘prodezze’ in fatto di guerra preventiva in Somalia e nei Balcani. Non poteva mancare nel libro di Del Boca un capitolo dedicato alla carneficina di Debrà Libanòs del maggio 1937. Debrà Libanòs è un città monastica dell’Etiopia dove ottant’anni fa le truppe italiane passarono per le armi quasi duemila etiopi in risposta a un sanguinoso attentato a danno di Rodolfo Graziani, all’epoca Viceré delle colonie orientali e comunque sfuggito alla morte. A dissotterrare dall’oblio quest’altro inqualificabile episodio è stato, mercoledì scorso, Roberto Abbiati con ‘Debra Libanos’, una produzione Teatro de gli Incamminati che all’Auditorium Vallisa ha aperto ‘Il peso della farfalla’, la rassegna diretta da Clarissa Veronico per l’Associazione Punti Cospicui. Basato sulle memorie di un telegrafista del Regio Esercito testimone dei fatti e per le cui mani passarono ordini di sterminio e succinti resoconti d’adempiuto dovere, la storia viene qui raccontata da un cantastorie sfuggito alla strage e che per poterne tramandare la memoria è costretto a travestirsi da clown (nella primordiale Etiopia degli anni trenta la memoria storica era affidata più ai cantastorie che ai libri o ai media). Il travestimento dà origine a una figura allibita, sconclusionata e buffa, irresistibilmente umana. In un odore di sangue e polvere da sparo, in mezzo a frammenti di missive criminose fatte simbolicamente a pezzi, tra proiezioni (video di Nicolò Colzani), canzoni a voce spenta e deboli pizzicate alle corde di una chitarra si snoda un racconto toccante e ben confezionato ; la drammaturgia è dello stesso Abbiati e di Lucia Baldini. Giuseppe Abbiati è molto bravo. Col corpo, anche più che con la parola, afferra la platea e la riduce a un silenzioso esercizio d’attenzione che ha quasi del liturgico e che perciò perfettamente s’intona con l’antica destinazione del ‘contenitore’ (una chiesa). ‘Debra Libanos’ è una di quelle storie per cui “la pietà va via dal vocabolario per la vergogna”. Ma la rivelazione contenuta nell’epilogo della messinscena (di cui avrebbe potuto anche essere il prologo) riporta indietro la pietà. Di recente gli Etiopi hanno rimosso il monumento che ricordava la strage di Debrà Libanòs sulla base di una semplice considerazione : Se quel ‘gesto’ è stato perdonato, non ha più senso un monumento che grida vendetta. Se ciò non è porgere l’altra guancia, è quanto meno un rimettere un debito al proprio debitore.

Italo Interesse

 

 


Pubblicato il 27 Ottobre 2017

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