Cultura e Spettacoli

Il Mattatore sdegna bandiere bianche

Di tutte le prove d’attore, quella a cui si sottopone Svetlovidov, l’unico protagonista – con l’eccezione del suo suggeritore – de ‘Il canto del cigno’ di Cechov, pur nella sua brevità è certamente una delle più ostiche. Pensato solo per mattatori in fine carriera (con questo testo si sono misurati John Gielgud, Memo Benassi, Glauco Mari, Mario Scaccia…), ‘Il canto del cigno’ è il sogno di ogni attore giovane. Un sogno più volte accarezzato nel corso della carriera e prudentemente rimesso nel cassetto nell’attesa di vedere le proprie corde arricchirsi di quel particolare ‘colore’ che solo mezzo secolo di pratica di palcoscenico fa sbocciare. Ugualmente, raggiunta l’età giusta, restano in pochi a osare. Tra questi pochi rientra il nostro Franco Minervini, che nell’ultimo fine settimana al Bravò ha portato in scena il lavoro di Cechov (un allestimento delle compagnie Tavole Magiche e Tiberio Fiorilli). Minervini adatta leggermente il testo cui conferisce un respiro più vasto : A notte, nel teatro vuoto, reduce da una sbronza da camerino, un vecchio attore prossimo all’addio alle scene si ridesta stralunato e afflitto. A soccorrerlo nella sua devastante solitudine è Dora (Elena Cascione), la storica sarta di compagnia che gli fa pure da suggeritrice, un’altra figura in coda di carriera e che ristrettezze economiche piegano alla tristezza di notti passati in qualche angolo dello stesso teatro. Un senso di cameratismo avvicina i due. Ciò dà la stura ad un desiderio di sfogo del vecchio teatrante, consapevole dopo anni di pratica teatrale che “non esiste alcuna sacralità dell’arte, che è tutto delirio e inganno”, che l’attore “è uno schiavo, un giocattolo dell’ozio altrui, un buffone, un pagliaccio”. Uno sfogo che a sua volta innesca un amaro gioco del ricordo. Sollecitato da Dora, l’anziano ripercorre la personale parabola artistica dando vita ad una variegata galleria di personaggi. Ed ecco sfilare Amleto, Re Lear, Romeo, Cyrano, Arpagone…. A differenza che nell’originale, però, qui il sipario non cala con mestizia. Il Mattatore e Dora hanno come una scossa, quasi escono dalle parti. Con tono quasi risoluto abbandonano frettolosamente il palcoscenico dandosi appuntamento all’indomani. Replicheranno?… Nessun canto del cigno, dunque, semmai – finzione nella finzione – un ripetersi ossessivo, quasi un loop, un supplizio dantesco. La conclusione di Minervini conferisce un tocco di ostinata e pretesa immortalità alla figura di Svetlovidov, il quale a questo punto assurge a prototipo dell’uomo di spettacolo volutamente cieco dinanzi ai guasti che il decorso del tempo infligge e che invece di abbandonare, rilancia la posta, anche a costo di scendere nel ridicolo. Non sono pochi oggi gli esempi.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 11 Ottobre 2017

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