Il medico patriota non abbandonò i pazienti
Qualche mese fa Mirella Galletti – docente di Storia dei paesi Islamici a Napoli – ha dato alle stampe un testo pubblicato da Argo Editore : “Un patriota leccese nell’Albania Ottomana”. Si tratta della trascrizione di un manoscritto in cui Giacinto Simini ricostruisce la vita del padre, Gennaro Simini, fautore dei moti del 1848 contro la monarchia borbonica e poi esule, prima a Corfù, poi a Scutari. Il libro, come scrive Rosa Colonna in ‘Quaderni dell’Orazio Flacco’ (Levante, 2011), ha lo scopo di non far perdere memoria di quei protagonisti del Risorgimento della nostra storia locale “presto dimenticati dalla coscienza collettiva per incuria o ignoranza, mentre sarebbero degni d’essere rammentati e celebrati”. Nato nel 1812 a Monteroni, Gennaro Simini si forma leggendo da ragazzo i testi dell’illuminismo e frequentando gli ambienti liberali di Napoli, dove si laurea prima in lettere e poi in medicina. Coinvolto nei moti del ’48, viene imputato “di cospirazione per distruggere o cambiare il governo ed eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità Reale”. Scansa l’arresto travestito da contadino. Dopo essere rimasto nascosto quasi tre anni, nel 1851 si imbarca alla volta di Corfù. Nell’isola greca si ferma due anni insieme a Niccolò Tommase ed altri esuli. Nel 1953 abbandona Corfù e si sistema a Scutari in Albania, dove riprende l’attività di medico. Non abbandona tuttavia la lotta patriottica, come conferma una lettera che Mazzini gli spedisce. L’apostolo dell’unità lo invita ad organizzarsi e continuare l’opera di propaganda anche oltre i confini della Patria (“Dovunque sono tre italiani, si uniscano alla bandiera… Oggi la forza per molti si sperde nell’inazione. Si tratta di concentrarla, di metterla tutta in attività… lavoriamo concordi. E voglia Iddio che ci stringiamo un giorno la mano su terra italiana”). Dopo l’Unità, Simini torna finalmente a Lecce. Successivamente incontra Vittorio Emanuele II che, riconoscente, gli offre cariche di grande prestigio, ma Simini, toccato dalle testimonianze d’affetto della gente di Scutari, preferisce tornare in quella città ad esercitare la sua professione. E lì muore nel 1880. Un testo prezioso, dunque, che, come Franco Cardini sottolinea nella prefazione, testimonia l’antichità e l’intensità del rapporto tra mondo pugliese e opposta sponda adriatica. E il fatto che Simini abbia potuto lavorare così a lungo, avvolto dalla stima e dall’affetto di cristiani e musulmani – a loro volta serenamente concordi – conferma come una coesistenza pacifica fra i due mondi sia (e tale sarà, sempre che lo si voglia) non solo possibile ma pure foriera di reciproco arricchimento.
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Pubblicato il 9 Luglio 2011