Cultura e Spettacoli

Il Monte dei coccioli, come Testaccio

Racconta Janet Ross in un diario di viaggio di fine Ottocento (‘La Puglia nell’Ottocento, la terra di Manfredi’, Lorenzo Capone Editore 1978) che a Taranto, “non lontano da Santa Lucia”, in riva al Mar Piccolo si levava un enorme cumulo di gusci di Bolinus Brandaris, ovvero il murice, il mollusco da una cui ghiandola, come è noto, viene secreto un liquido violaceo che in passato si adoperava per colorare le stoffe (il mito attribuisce la scoperta di questo colore al cane di Ercole il quale un giorno schiacciando fra i denti una di queste conchiglie trovata sulla spiaggia sarebbe rimasto per sempre con le mascelle macchiate di rosso porpora ; non tutti i dizionari di mitologia, però, concordano su questa versione). L’esistenza di questa collinetta artificiale è confermata da altro e precedente viaggiatore straniero, Johann Hermann Von Riesedel, gentiluomo tedesco che visitò la Puglia nel 1767. Tale collinetta, annota Von Riesedel, era detta Monte dei Coccioli e si levava non lontano dai resti di una specie di stabilimento per la lavorazione della porpora. Esso consisteva in un fosso aperto nel terreno a forma di caldaia nel quale “mettevano capo due condutture, l’una per immettervi l’acqua e l’altra per farla defluire in un altro fosso le cui fabbriche sono distrutte” ma di cui restano tracce color porpora. A Taranto si produceva una tinta rosso-porpora che non aveva eguali nel mondo antico e che veniva ottenuta mescolando le tinte secrete dalle varietà più pregiate di murice, quella  di Tiro (in Libano) e quella della Laconia, la regione di cui Sparta era capoluogo.  Il Monte dei coccioli, che si può avvicinare al Testaccio di Roma formato da milioni di frammenti ceramici, testimonia la vivacità di questo settore produttivo cui corrispondeva un traffico straordinariamente intenso tra Taranto e i porti dell’Est del Mediterraneo. Plinio racconta come i pescatori tarantini avessero escogitato un sistema ingegnoso per catturare il murice sfruttando l’ingordigia di questo mollusco: In un sacco a rete fitta veniva introdotta una certa quantità di cozze, in precedenza tenute lontane dall’acqua di mare fino ai limiti della sopravvivenza. Quando poi, insaccate, venivano immerse nuovamente in mare, le cozze subito ritornavano a respirare schiudendo il guscio. Attratti dall’odore, i murici accorrevano. Non potendo col loro irto guscio introdursi nei varchi della rete, aggredivano con la lunga e acuminata lingua i mitili più vicini, che si chiudevano in difesa. I murici che non facevano in tempo a ritirare la lingua, ed erano i più, rimanevano intrappolati come in una morsa. Quando poi la rete veniva tirata su, i murici pendevano a grappoli. Per i pescatori era facile allora staccarli e selezionarli. I più grossi venivano messi da parte. Una volta rotti, se ne estraeva il frutto per mezzo di un uncino di ferro. La ’borsa’ contenente il colore veniva separata e messa sotto sale per tre giorni. Maggiore era la freschezza del murice, tanto più vivo era il colore violaceo che se ne ricavava.

Italo Interesse

 

 


Pubblicato il 31 Ottobre 2015

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