Cultura e Spettacoli

Il ‘raschio’, salvezza del secchio

Il rubinetto, quale comodità. Ecco un’altra di quelle cosette la cui esistenza diamo per scontata senza far mente locale a che sarebbe il mondo senza questo – banale se si vuole – dispositivo di regolazione. Eppure, è esistito un tempo (che pare lontanissimo benché si sia esaurito di recente, almeno nelle campagne) in cui l’acqua bisognava cavarla dal basso e a forza di braccia. Ce lo siamo dimenticate le cisterne, queste riserve d’acqua piovana, rimedio millenario ai guasti della siccità o all’avarizia del territorio in fatto di fiumi e laghi. E visto che siamo in tema, chi si ricorda del secchio dal manico semicircolare calato con la fune…? Oggi i secchi, che vengono usati per altri scopi, sono in plastica e a buon mercato. Quasi indistruttibili, gai nelle tinteggiature, nulla hanno a che vedere coi loro delicati e costosi antenati, contenitori non facilmente maneggevoli fatti in legno, in rame o in lamiera stagnata. E la corda a cui erano sospesi? Dai dai, a contatto con l’acqua prima o poi la fune s’infracidiva e si spezzava. Toccava allora andare a prendere il ‘raschio’ o ‘rampino’, un anello munito di un gancio al quale, tramite un secondo anello, erano collegate quattro braccia munite di più uncini. Qualche volta si riusciva a recuperare il secchio al primo colpo, altre volte bisognava penare. Succedeva poi che il secchio riemergesse dal fondo con qualche sorpresa : una biscia. Non era raro che attraverso crepe sotterranee, attratti dal sentore dell’acqua, rettili precipitassero in una cisterna senza più poterne uscire. In questo caso, con straordinaria capacità di adattamento si piegavano alla congiuntura mutando abitudini e dieta (il loro nutrimento, allora, diventavano larve ed insetti). Alcuni contadini preferivano lasciare le serpi nella cisterna, dove svolgevano un’utile azione purificatrice. Chi invece aveva orrore di queste presenze, che nella superstiziosa mentalità del mondo rurale potevano essere ragioni di ‘diabolico’ avvelenamento della preziosa risorsa idrica, prendeva una pietra di calce e la immergeva. Sospesa con una reticella a metà strada tra il fondo e il pelo dell’acqua, la pietra ‘friggeva’ per effetto di espansione nel passaggio da ossido a idrossido di calcio; una volta consumata la pietra, la potente azione disinfettante poteva dirsi completata. Altri tempi. Tempi di cisterne all’uso antico, voragini a forma di bulbo o ampolla, scavate a colpi di piccone, poi impermeabilizzate facendo uso di appositi intonaci idraulici a matrice pozzolanica o calcarea (a seconda della disponibilità fornita dalla natura dei suoli circostanti). Adesso invece per raccogliere l’acqua piovana, solo cisterne in polietilene, in vetroresina. Colossi cilindrici prefabbricati, da collocare senza fatica in superficie. Con certi rubinetti… Altro che il secchio di latta.
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Pubblicato il 10 Ottobre 2011

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