In nome di che, di chi?
Nel 1971 Dino Risi dirigeva Tognazzi e Gassman in un film (‘In nome del popolo italiano’) dal singolare potere precognitivo. L’imprenditore Santenocita (Gassman) è l’archetipo del capitano d’industria aggressivo e senza scrupoli che sguazza nella decadenza di una società corrotta dove nessuno s’indigna se le antenate delle moderne escort si accompagnano ai potenti nei loro festini. Sospettato d’essere implicato nella morte di una giovanissima escort, Santenocita si vede perseguitato dal giudice istruttore Mariano Bonifazi (Tognazzi). Alla fine, quando al termine di indagini condotte con “zelo inquisitorio” sulla spinta di un irresistibile “odio ideologico” il magistrato mette le mani sulla prova dell’innocenza del suo ‘avversario’, la distrugge. Ebbene, non si ha qui la sensazione di vaticinare un Cavaliere e una Magistratura accusata d’essere prevenuta? Al di là di quello che Risi disse negli anni di Tangentopoli (e cioè di aver girato quel film anche per riflettere sul potere discrezionale di cui i magistrati dispongono e di cui possono abusare nel nome di un giustizialismo che tollera modalità non ortodosse), resta il fatto che ‘In nome del popolo italiano’ sfata il mito degli anni sessanta, di cui è figlio. Insomma, se l’Italia post berlusconiana è un malato terminale, lo stesso paese era messo male già negli anni del boom economico ; forse aveva la febbre negli anni del fascismo e chissà che non gli girasse la testa all’indomani dell’Unità. Queste considerazioni hanno sollecitato Michele Bia ad un originale adattamento teatrale di quella strepitosa sceneggiatura. ‘In nome del popolo italiano’ – una produzione Scalamercalli/Teatroscalo/Skenè – è stato in cartellone al Teatro Comunale di Modugno pochi giorni fa. Tagliando, cucendo ed integrando il meraviglioso lavoro di Age & Scarpelli, alla fine Bia tesse un testo che sembra nato per il teatro e che poi Franco Ferrante e Marco Grossi mettono in scena con prudente fantasia. L’azione nasce nella grigissima stanza di Bonifazi (un grande tavolo e pile di faldoni) e con qualche accorgimento nella stessa stanza continua a svolgersi anche quando le cose si spostano in casa di Santenocito. A parte qualche difficoltà d’ingresso in scena (e diciamo grazie se ancora si può adattare a scopi teatrali ciò che per l’arte scenica non è nato), i movimenti sono fluidi e i ritmi giusti ; gradevoli gli intermezzi coreutici che per il fatto d’essere inattesi, suonando stralunati, rendono opportunamente grottesca l’atmosfera. Franco Ferrante (Santenocito) e Marco Grossi (Bonifazi) si consumano con successo per scrollarsi di dosso la soma del confronto tanto inevitabile quanto imbarazzante col modello cinematografico Tognazzi-Gassman (che match). Piuttosto bene anche il versatile Raffaele Braia e la leggiadra Marianna De Pinto. Con generosità completano il cast Maurizio Semeraro e Nicola Cucinella.
Italo Interesse
Pubblicato il 10 Gennaio 2014