Cultura e Spettacoli

La ‘Calabria’ mi rapì…

Dopo la morte, la salma di Virgilio fu trasferita a Napoli, dove ancora oggi la conserverebbe un tumulo (visibile sulla collina di Posillipo) se l’urna contenente i resti del poeta non fosse andata dispersa nel medioevo. Celebre è rimasto l’epitaffio, scritto da mano ignota : “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces”; cioè : “Mi generò Mantova, la Calabria mi rapì: ora mi custodisce Partenope ; cantai i pascoli, i campi, i condottieri”. Virgilio morì a Brindisi il 21 settembre di 2037 anni fa. Ma perché il centro sud pugliese viene chiamato Calabria? Prima della divisione dell’Italia in regioni compiuta da Augusto, al toponimo Apulia corrispondeva il territorio che dal Tifernus (il fiume Biferno che sfocia tra Termoli e Campomarino) scende sino alla linea tracciabile da Egnazia a Taranto ; il quale territorio – che comprendeva anche il paese degli Hirpini con Beneventum – era distinto in Daunia in alto e Peucezia in basso). Il sud della Puglia era detto Calabria. La riforma amministrativa voluta dall’Imperatore risale al 27 avanti Cristo, ovvero ben otto anni prima della morte di Virgilio. L’estensore di quell’epitaffio, dunque, adoperò un termine desueto. Virgilio morì dunque a Brindisi, appena sbarcato da un viaggio in oriente. Si vuole che abbia chiuso gli occhi in una casa vicina alla scalinata in cima alla quale oggi sorgono le colonne terminali della via Appia. Altro non si sa delle ultime ore di Virgilio. L’unica è immaginarsele. A ciò ha provveduto uno scrittore austriaco, Hermann Broch col suo ‘La morte di Virgilio’, un romanzo pubblicato nel 1945 negli USA, paese dove l’autore riparò nel 1938 non tollerando l’annessione della patria alla Germania nazista. Costruito come un flusso di coscienza prodigo di pensieri e avaro di fatti, ‘La morte di Virgilio’ è monologo elegante più vicino alla poesia che alla prosa. L’opera di Broch si apre con l’immagine di una formazione navale composta da sette navi che, in fila e provenienti da Atene, risalgono la costa salentina alla volta di Brindisi. Al centro, rilucente d’oro e con vele color porpora, naviga la galea di Ottaviano Augusto. Sulla tolda di una delle quattro navi che trasportano il seguito dell’imperatore si fa festa. Il vino scorre a fiumi, si fa musica e si danza. Solo Virgilio non prende parte alla baldoria. Debolissimo, tormentato dalla tosse e dalla febbre, oppresso dal mal di mare, ha fatto legare il suo giaciglio alla murata della nave. Trova sollievo solo nella brezza dell’Adriatico. Sa che sta morendo. Osserva la linea della costa che scorre lentamente e pensa agli schiavi che remano senza sosta nella stiva maleolente, mentre sul ponte si fa spreco. All’arrivo, il chiasso della folla che saluta l’Imperatore lo stordisce. Lo caricano su una lettiga che, attraversate viuzze, si ferma davanti ad una dimora. A fatica Virgilio abbandona la lettiga e si stende su un letto che finalmente non balla più. Ma è troppo tardi. Fantasie e ricordi popolano la mente del poeta. Allertati, accorrono prima gli amici, poi il medico, infine lo stesso Imperatore. Con l’ultimo fiato il malato conversa con loro prima di entrare in coma. L’ultima parte consiste in una lunga conversazione del moribondo con sé stesso. A misura che avverte la fiamma della vita spegnersi, Virgilio percepisce che si sta avvicinando a quel Tutto nel quale si annullerà. – Nell’immagine, Virgilio tra le Melpomene e Clio, rispettivamente muse della tragedia e della storia (mosaico conservato presso il Museo del Bardo di Tunisi)

 

Italo Interesse

 

 


Pubblicato il 21 Settembre 2018

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