La lista, galleria del dolore
Il 9 aprile 1945, per ragioni rimaste ignote, la nave arsenale Henderson delle marina militare Usa esplodeva nel porto di Bari. Imprecisato e comunque altissimo il numero di morti e feriti. Il capoluogo ne uscì devastato, per di più investita da una nube di iprite. Sono fatti, questi, che sanno tutti. Eppure, quanto poco si è scritto in proposito. Qualche articolo, qualche saggio, non di più. Non un film, un romanzo. Perché. Voglia di dimenticare, voglia di sollevare un (italianissimo) muro di gomma contro sospetti e teorie imbarazzanti? E’ il caso di ricordare che l’unico quotidiano della città diede la notizia con quattro giorni di ritardo e senza la minima enfasi, con sospetta discrezione… Le uniche testimonianze davvero interessanti di quella tragedia sono orali. Siamo riusciti a recuperarne una, quella di Nicolò Lanzellotto, genero di Giuseppe Panebianco, quest’ultimo vittima in mezzo a tanti di un giorno disgraziato. Il giorno del’esplosione Nicolò era a Palo del Colle, suo paese natale. Il botto, tremendo, fu inteso anche lì. Poche ore dopo, i primi viaggiatori in arrivo da Bari portavano la notizia. Niccolò si mise in agitazione poiché suo suocero lavorava proprio al porto. Subito il giovane accompagnato dal cugino salì sul primo treno e giunse in città : “Percorremmo le vie di Bari seminate di frantumi di vetro, spezzoni di legno e di ferro e più ancora uno strato di terra, tutto vero come se avesse fatta una pioggia di pece, ciò che derivava da nafta, sabbia e terra unite assieme formarono una pioggia nera”. Davanti all’Ospedale dell’Università “un’enorme folla si addossava davanti al cancello d’ingresso, la polizia alleata teneva a bada l’impeto della folla senza lasciare passare nessuno”. Dopo una lunga attesa “fu annunziato che il numero dei feriti e morti ascendeva a circa quattromila e con ciò non potevano in giornata dare nomi né di feriti e né di morti ; il mattino seguente avrebbero esposto i nomi di tutti i ricoverati”. In preda ad un’agitazione crescente, i due cugini si recarono presso altro ospedale, il Balilla. Lì, ad “alta voce” vennero comunicati alcuni nomi, ma di Giuseppe Panebianco nessuna notizia. I due tornarono allora all’ospedale dell’Università, dove in qualche modo riuscirono ad entrare e ad accedere alla lista provvisoria di ricoverati e deceduti : ancora niente tracce del loro caro. Ottenuto un passaggio su un autocarro, i due fecero ritorno a Palo. L’indomani erano di nuovo in città, questa volta davanti al Policlinico. “Intorno alla piazzetta prospiciente l’ospedale consorziale ebbi una visione come se una grande battaglia avesse colpito quelle case semidistrutte, la terra comparsa di frantumi d’ogni sorta e da giganteschi spezzoni di ferro della stessa nave scoppiata e taluni … di parecchi quintali”. Moltissima gente era assiepata davanti ai cancelli dove “le forze di polizia alleata e italiana proibivano in modo assoluto l’ingresso”. La folla “esasperata” faceva pressione (“tanto che un poliziotto inglese minacciò di fare fuoco”) e aumentava. Il sopraggiungere di rinforzi di polizia, non impedì ai “più energici” d’intrufolarsi e raccogliere notizie. Di nuovo, il nome di Giuseppe Panebianco latitava. Niccolò si rimise in cammino per l’Università. Un’altra passeggiata inutile. Si ripresentò al Policlinico. L’impeto della gente “veramente sdegnata” cresceva. Dovette sopraggiungere altra polizia con mitragliatrici. Tornò la calma solo quando fu esposto “un grande tabellone con la seguente scritta : l’elenco dei feriti sarà dato questa sera”. Intanto si era diffusa la voce che al cimitero era disponibile la lista dei deceduti. Niccolò si rimise la strada sotto i piedi. Al camposanto la lista effettivamente c’era. “Leggemmo i nomi dei morti, quel che cercavamo non c’era”. Mesto ritorno a casa, visto che l’atteso elenco al Policlinico non era ancora disponibile. Il giorno dopo, Niccolò e il cugino si recarono dai Salesiani “per aver saputo che il parroco di quella chiesa aveva un esiguo numero di feriti scritti su fogli di carta… il nome da noi cercato non vi era”. Le ricerche si spostarono prima al porto e poi ancora all’Università. Lì arrivò un nuovo elenco di feriti ricoverati in un ospedale di via Carbonara. “Ci accalcammo su quell’elenco ; il più vicino chiamò i nomi a voce alta ed anche su questo mancava”. Poi giunse la nuova : Tutti i morti erano al cimitero. “Entrando nel cimitero ecco quale fu la tragica scena: i viali di sinistra erano cosparsi di cadaveri, erano neri come carboni, perché morti bruciati, altri erano sporchi di fango, cioè terra e nafta, poi un mucchio di corpi spezzati da renderli irriconoscibili, teste. A destra vi era una stanza un po’ ampia la quale anche piena di cadaveri… per entrarvi si dovevano cavalcare i morti e mettere il piede nel piccolo spazio che distava tra i cadaveri messi in crocio e scrocio… il terzo di quelle vittime era mio suocero, non fu bruciato e né unto di alcuna materia, era intatto, vestito con i suoi panni di lavoro, con la scialla intorno al collo, i pantaloni sbottonati sul ventre e una mano posata sopra”. Infine, “tutti i cadaveri furono messi nelle casse… quel mucchio di corpi macellati furono messi tutti insieme in un’unica fossa”.
Italo Interesse
Pubblicato il 29 Luglio 2014