Cultura e Spettacoli

La pietra della fertilità

Al bordo di una strada, in contrada Mastralessio, nel territorio di Anzano di Puglia, spunta di 23 cm. un grosso cippo quasi cilindrico (diametro cm. 42) di marmo grigio. Inizialmente scambiato per una pietra miliare, ad un esame più approfondito il cippo si è rivelato tutt’altro. La rozza scultura presenta una testa femminile in profilo destrorso con sulla chioma l’epiteto AFEA (‘liberatrice’) e un’epigrafe composta da sei vocaboli di matrice ellenica ma scolpiti in caratteri italici sovrapposti in sei distinte linee. La datazione, per quanto incerta, è certamente precristiana. La cattiva qualità di conservazione del reperto (i caratteri si presentano abrasi, irregolari e approssimativi già in origine) ha messo in crisi gli studiosi. Ma Erminio Paoletta in ‘Le pietre dimenticate ricordano’ (Laurenziana – Napoli, 1993) ha a tale proposito espresso un’ardita ipotesi : Quella è una pietra sacra legata al rito della fertilità. Nello specifico, lì i fanciulli che avevano raggiunto la pubertà davano pubblicamente prova della loro virilità irrorando il cippo di liquido seminale (nell’età preromana la stessa pratica aveva per oggetto le pietre funerarie nell’idea di offrire ‘nutrimento’ ai propri defunti). Su pietre così ‘inseminate’, in un secondo momento, andavano a strofinarsi le donne sterili o presunte tali per recuperare la fecondità. Intorno al cippo non si scorgono avanzi di templi. Il rito allora si svolgeva all’aperto?… E ancora : quella pietra è stata scolpita altrove e lì infissa? La nostra idea è che sia stata scolpita sul posto. Ovvero, lì esisteva un affioramento roccioso dalla forma singolare, forse fallica. Ciò potrebbe aver indotto gli indigeni del tempo ad eleggerlo a monumento alla fecondità. Più avanti, forse, con l’avvento della scrittura si volle enfatizzarne la funzione propiziatoria. Di qui la necessità di apporre quelle oscure parole. Ma prima era necessario predisporlo alle esigenze della scrittura. In altre parole, quel cippo divenne tale, cioè assunse la forma più o meno cilindrica che conosciamo, sotto i colpi dello scalpello. Una volta arrotondato, fu possibile incidere quanto ancora a fatica si legge. E la rozzezza dei caratteri si spiegherebbe con la difficoltà degli scalpellini di lavorare chini a terra e con strumenti approssimativi. In conclusione, se il Cippo di Eca così come si presenta a noi risale all’incirca al V sec. a.C., l’utilizzazione dell’originale protuberanza rocciosa risale a ere assai più lontane. Risale forse ai tempi degli Ausoni, degli Enotri o degli Japigi, ovvero le antiche popolazioni italiche di cui parlano i primi Greci venuti a colonizzare il nostro Mezzogiorno. Il che fa retrocede il rito della fertilità legato al Cippo di Eca almeno all’età del bronzo.

Italo Interesse


Pubblicato il 14 Settembre 2016

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