La plasticità occulta dell’invisibile che si fa danza
The Tokyo Ballet al Petruzzelli
“Colui che danza cammina sull’acqua e dentro una fiamma”, scriveva Garcia Lorca. Un incedere metamorfico in cui il mistero dell’invisibile sembra ridefinirsi plasticamente sulla scena, circondato da una scenografia minimalista in cui ogni singolo elemento sembra essere inserito perfettamente al suo posto per esprimere il suo magico senso. È una scheggia, una piuma impazzita che sfugge al controllo della ragione, ma che riesce inevitabilmente a farsi materia e carne. Il pensiero. Questa la prima superlativa coreografia Dream Time di Jirí Kylián, su musiche di Toru Takemitsu dello spettacolo andato in scena giovedì scorso dei Tokyo Ballet al teatro Petruzzelli: “Ciò che vedi è solo una parte di ciò che c’è, tuttavia il visibile non può esistere senza l’invisibile. Con Dreamtime ho creato un balletto in cui l’invisibile è altrettanto importante, sì, forse anche più importante di ciò che le persone alla fine vedono, un balletto in cui tu, guardando indietro come spettatore, non sai se lo hai visto o sognato per un po’.” Spiega il noto compositore giapponese Takemitsu. Tutta la sua opera è indirizzata ad un rinnegamento delle strutture, dei canoni, delle melodie della tradizione musicale della sua patria, a favore di una base prettamente occidentale. Non rifiuta però gli strumenti della tradizione giapponese, inserendo in molte opere, sia orchestrali che da camera, biwa e shakuhachi. L’anima giapponese di Takemitsu è presente, in maniera forse anche più significativa, nel gesto essenziale, nelle movenze astratte che nella danza generano un senso nascosto e profondo, nella filosofia che anima le sue opere. Nella sua musica sono importanti anche le pause, il silenzio o la concezione di un brano come libero flusso musicale non incamerato in una struttura rigida, facendo propria la lezione di Debussy e delle suggestioni impressionistiche. Takemitsu si ispira alla letteratura e alle arti figurative anche nella scelta dei titoli dei suoi brani. Tra le altre coreografie presentate degna di nota anche La Sagra della primavera di Maurice Béjart, su musica di Igor Stravinskij. Maurice Béjart aveva già presentato la sua avanguardistica versione de La Sagra della primavera a Bruxelles nel 1959, scioccando il pubblico per la sensualità selvaggia e l’incredibile potenza ancestrale di una coralità umana in movimento, tra espedienti scenici di luce e ombra impressionanti. Béjart trasforma il senso della primavera in qualcosa di più ancestrale e coinvolgente: la potenza dell’amore è ciò che tutto governa. Una forza inarrestabile che sembra esplodere e travolgere non solo l’animo umano e il rapporto fisico uomo donna, ma qualsiasi elemento della natura e in ultima analisi del cosmo, che sembra non poter fare a meno di piegarsi a questa volontà imperativa e divina. Il balletto della vita e della morte, eterne come la primavera.
Rossella Cea
Pubblicato il 26 Novembre 2024