Cultura e Spettacoli

La ‘terra bruciata’ dell’Orsini

La tattica della ‘terra bruciata’ è una forma di strategia utilizzata in guerra e adoperata da eserciti in ritirata : Consiste nel distruggere ogni risorsa civile o militare che possa essere adoperata dal nemico. La Storia, anche la più antica, è ricca di esempi in proposito. Nel 514 a.C. gli Sciiti utilizzarono questa tattica contro Dario, due secoli dopo essa venne adottata da Quinto Fabio Massimo a seguito della disfatta romana del lago Trasimeno ad opera di Annibale. In tempi recenti usarono fare terra bruciata alle proprie spalle sia i Russi davanti all’avanzata di Napoleone (1812), che i Tedeschi sotto la pressione degli Alleati nel corso dell’ultima guerra mondiale. Di tutti, i Tedeschi si dimostrarono i più scientifici, nessuno essendosi spinto, per esempio, ad affondare navi all’imboccatura dei porti per rallentare l’avanzata degli inseguitori. Eppure la stessa trovata ha un precedente, sia pure isolato, che risale a quattro secoli prima e che vide la Puglia testimone dell’insolito fatto. Nel 1446 Giovanni Antonio Orsini del Balzo, Principe di Taranto, era il più potente signore del Regno di Napoli : il territorio sotto il suo controllo comprendeva sette arcivescovadi, trenta vescovadi ed oltre 300 castelli, tant’è che il Principe poteva spostarsi da Salerno a Taranto quasi rimanendo sempre sui propri territori. Ma in quell’anno il potere dell’Orsini appariva in crisi dinanzi alla minaccia della Serenissima, con cui il Principe era entrato in contrasto. Ritenendo perciò il porto più importante, quello di Brindisi, a rischio attacco da parte dei veneziani, l’Orsini, che non disponeva di forze sufficienti a respingere un assalto, pensò di scoraggiare i Veneziani ostruendo l’ingresso di quel porto. Fece perciò affondare in quel punto una vecchia nave da carico zavorrata di pietrisco. Poiché in quel punto i fondali sono piuttosto bassi e poiché le navi del Quattrocento avevano un ‘pescaggio’ molto contenuto, a operazione completata l’imbarcazione mandata a fondo fuoriusciva all’altezza del ponte. In quel modo nessuna nave nemica poteva più manovrare senza il rischio di una collisione fatale. E la sua stessa consistenza (il carico di pietrisco) avrebbe preservato quell’anomalo frangiflutti dall’azione del mare per molti anni. La trovata del Principe, se scansò a Brindisi i rischi di uno sbarco nemico, segnò la fine di quel porto per oltre tre secoli. Per vedere ripristinata la navigazione si dovette attendere il 1775, anno in cui Ferdinando IV di Borbone stanziò i fondi necessari. I lavori, affidati ad Andrea Pigonati, tenente colonnello del Genio (coadiuvato dal matematico don Vito Caravelli), si protrassero dal 1776 al 1780. L’operazione si rivelò piuttosto complessa poiché in tre secoli di inattività il porto si era totalmente impaludato. E comunque il risultato finale si rivelò incompleto, sicché dopo il 1780 si resero necessari ulteriori interventi, che si protrassero fino ai primi decenni dell’Ottocento.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 8 Agosto 2018

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