Cultura e Spettacoli

Le ‘fatali’ vanno in parata

Il sesso degli uccelli, quale mistero. E quale fatica distinguere, per esempio, tra il maschio e la femmina del colibrì, un volatile che dal becco alla coda non arriva a sette centimetri. Una fatica pari a quella necessaria ad un uomo per orientarsi all’interno dell’inafferrabile universo femmineo. Deve aver ragionato in questi termini Vinicio Coppola, autore di un testo intitolato ‘Il sesso del colibrì’, che ha per oggetto una galleria di seduttori e donne fatali. L’opera è andata incontro ad una trasposizione teatrale. “Il sesso del colibrì”, per la regia di Pino Aversa e l’interpretazione di Liliana Chiari è da ieri in cartellone al Duse, dove resterà sino a gennaio. Cleopatra, Coco Chanel, Francesca Bertini e la Monaca di Monza sono le protagoniste di questa carrellata di femmes fatales dove il sentire comune è al bando e la presenza della Storia si fa pesante come un macigno. Sul testo (che già Coppola attinge in parte da fonti diverse) la Chiari interviene mettendoci del suo. Il resto lo fanno musiche inattese (persino i Pink Floyd), la mano forte di Aversa, la versatilità dell’interprete e la forza della stessa parola. Ad aprire la parata è Cleopatra. Nessuna architettura faraonica l’avvolge. Per lei, la mitica che nel pugno serrò i cuori dei più potenti uomini di Roma, nemmeno si schiude il sipario. Cleopatra è intensa apparizione in platea. Seduta sul bordo del palcoscenico, splendente nell’abito di scena (disegnato da Giuseppe Bellini, mentre i gioielli sono di Alba e Marli), Liliana  Chiari adotta un registro interpretativo ad assetto variabile, nel senso che alterna all’aulico-epico dell’antica scuola di recitazione italiana (la Duse innanzitutto), il romanesco della donnetta capitolina eccitata dalla novità della grande sovrana d’Oriente in trionfo a Roma. L’aspide che mette fine alla vita dell’ultima regina  d’Egitto è un sudario che cala in viso. Così velata Cleopatra s’eclissa nel ritrovato buio. Bello. Finalmente il sipario si schiude e riecco Liliana elegantissima, paludata questa volta di scuro. Immersa tra schermi avvolti nel tulle nero che trasmettono immagini di ‘fatali’, fluttua leggera come una nube di profumo. Voilà Coco Chanel. La donna che per tutto il primo Novecento fu a livello mondiale arbitro indiscusso di stile viene qui raccontata in terza persona, con venerazione. E’ poi la volta di Francesca Bertini, la diva del cinema muto italiano la cui rievocazione ‘fruscia’ in scena avvolta in un bruno mantello fatto di frammenti di celluloide. Chiude la galleria la Monaca di Monza. Anche qui Aversa fugge la stasi, sì che al personaggio la tonaca sembra scottarle addosso. Il tono è plumbeo nei cromatismi, non sempre nell’umore giacché un’abile inserimento da una novella del Boccaccio mitiga l’amarezza della nota vicenda. Ma quando la povera Monaca si abbandona al suo dolore di reclusa, il milanese stretto esalta l’espressione addirittura violenta di una solitudine e di una violenza a monte insostenibili. Un allestimento gradevole, ben confezionato, interpretato con spessore.
Italo Interesse 


Pubblicato il 14 Dicembre 2011

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