Lear, i canti e non gli orpelli
Dieci sedie disposte a semicerchio ed altrettante voci. Così, quasi un racconto da ‘campo’, Grzegorz Bral narra la vicenda di Lear, l’improvvido monarca punito dalla sorte al di là dei propri demeriti. Fedele alla lezione del suo maestro, Grotowski, Bral chiama il Song of the Goat Theatre – la compagnia che rappresenta il vertice dell’avanguardia polacca e che egli guida da molti anni – ad un racconto corale eseguito a cappella (musiche di Maciej Rycly e Jean-Claude Acquaviva) e in parte gestualizzato, fratto in dodici composizioni. ‘Songs of Lear’, che nell’ultimo fine settimana è stato in cartellone al Petruzzelli, ha un avvio lento. Nel suo gusto arcaico la rievocazione è pervasa da una solennità austera che la delicatezza e l’accoramento dei toni molto l’avvicinano al canto monacale. Poi, dalla quarta composizione (il monito che Cordelia, l’unica figlia leale, rivolge al padre incaponito in una decisione rovinosa), lo spettacolo assume maggior ritmo, il movimento si fa più ricco : bello l’impeto tribale che innerva l’ottava frazione, quella in cui viene raffigurato lo scontro in armi. Non meno bella la terz’ultima ‘stazione’, nella quale Regan e Coleril, le altre due figlie di Lear, svelano la loro natura avida ; la rappresentazione di questo sollevare la maschera viene qui efficacemente enfatizzata dalle percussioni che un solo batterista imprime su dodici tamburi sorretti dai vocalist-attori. Caldo e prolungato l’applauso conclusivo da parte di una platea attenta e affatto numerosa (parliamo di sabato) per una messinscena vibrante e che nella sua sobrietà ha sfrondato la figura di Lear di ogni orpello enfatico per ricondurre il personaggio alla sua giusta dimensione, quella di un uomo al quale i capelli bianchi e i tanti anni passati a governare nulla hanno insegnato a proposito della natura umana e di come il male venga meglio arrecato dai famigliari più stretti che dagli estranei più lontani. Un ben meritato successo. Unico appunto, la scelta di Bral di far precedere ognuna delle dodici esecuzioni da brevi illustrazioni fatte a voce e in lingua inglese (un display alle spalle del cast traduceva in italiano). Una cosa rigida, meccanica e un po’ scolastica e di cui si sarebbe potuto fare a meno, stante la presenza del display. Display peraltro non utilizzato nel corso delle esecuzioni. Per cui buona parte del pubblico non ha potuto apprezzare i testi, sicuramente più intriganti delle acquose introduzioni di cui sopra. Non sarebbe stata cattiva idea confezionare un libretto di sala, magari da distribuire a pagamento, con testi e traduzione a fronte ; la conoscenza dell’inglese non è ancora obbligo di legge.
Italo Interesse
Pubblicato il 27 Aprile 2016