Cultura e Spettacoli

L’ippocampo di Canosa

Anni fa, ascoltando nel porticciolo di Fesca anziani pescatori che, lamentandosi della decrescente pescosità dei nostri mari, adducevano ad esempio la scomparsa di alcune specie, ci rimase impressa una frase : “Manghe u cavadde de mare se vede cchiù”. Già, la devastazione dei fondali adriatici e jonici non ha risparmiato il cavalluccio marino o ippocampo. Una volta presente in tutto il Mediterraneo, ora l’ippocampo sopravvive da noi solo nella riserva delle Tremiti (per quanto proprio nell’inquinatissimo golfo di Taranto subacquei dilettanti abbiano di recente individuato esemplari del genere ‘guttulatus’). Ma ci sono stati tempi in cui questo curioso pesce era comunissimo in Puglia. La più antica testimonianza in proposito ci viene dai resti di un mosaico rinvenuti a Canosa negli Ipogei Lagrasta. Il frammento composto da tessere bianche e nere di 1,5 – 2 cm, e che misura m. 3,27 x 3,80 è la più bella delle poche cose di questo complesso funerario dell’era dauna sfuggito alle razzie. La cura puntigliosa del disegno segnala lo stupore e l’atteggiamento di deferenza dei nostri progenitori nei confronti di questa straordinaria creatura ; le figure zoomorfe marine dell’iconografia precristiana (le sirene, per esempio) devono aver preso spunto proprio dall’ippocampo. Gli Ipogei Lagrasta meritano una digressione. La prima notizia del monumento risale al 26 dicembre 1843, quando l’Ispettore dei Regi Scavi a Canosa, l’arcidiacono Michele Caracciolo, fece sapere al soprintendente agli Scavi di Antichità del Regno, il cavaliere Teodoro Avellino, che alcuni giorni prima il signor Vito Lagrasta, scavando in un suo fondo una buca per il deposito del fieno, con l’ aiuto di due operai, noti tombaroli della zona, si era imbattuto in un ipogeo «composto da 4 o 5 stanze, ornate di intagli, di colonnette intagliate nel tufo e di vari dipinti». La relazione dell’Arcidiacono riportava pure che durante questa prima incursione il Lagrasta si era impadronito di una parte consistente del corredo funerario deposto in quelle celle. I lavori ebbero inizio il 4 gennaio dell’anno dopo e si chiusero l’8. Al termine dei lavori venne stilato l’inventario degli oggetti rinvenuti durante lo scavo regolare e quello dei materiali recuperati furtivamente dal Lagrasta e depositati presso un tal canonico Basta, tesoriere della Cattedrale di Canosa e custode della tomba di Boemondo, già proprietario di una ricca collezione e reo di ricettazione e smercio di materiale archeologico. Coinvolto nel losco maneggio fu pure tale Donato Fatelli di Ruvo, che era entrato in possesso di oggetti di vetro rinvenuti nell’ipogeo. Si saprà poi che tali vetri erano stati proposti per l’acquisto al Reale Museo Borbonico di Napoli. Nella capitale del regno giunse invece l’anello d’oro a doppio castone e un granato inviato dal canonico perché venisse integrato, a suo dire, della pietra mancante.
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Pubblicato il 26 Giugno 2011

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