L’oro di Canne
In ‘Ab Urbe condita’ Tito Livio riporta che Annibale, a testimonianza della vittoria a Canne, inviò a Cartagine tre moggi di anelli d’oro provenienti dalle mani di cavalieri e senatori romani uccisi. Il ‘moggio’ era una misura per aridi (frumento o farina) in uso nell’antica Roma consistente in un cilindro metallico o in legno della capacità di quasi nove litri. Dunque, quanto oro i vincitori strapparono alle mani dei caduti? Si provi a immaginare tre secchi colmi fino all’orlo… Grosso modo, azzardiamo, il macabro bottino ammontò a dieci chili d’oro (corrispondente a un migliaio di ‘pezzi’). L’annotazione del grande storico stuzzica interrogativi. Se a valutare l’entità della preda fu il vincitore, perché impiegare una misura romana? E’ evidente che Annibale calcolò il bottino impiegando unità in uso a Cartagine ; qualcuno, poi, si prese la briga di convertire quella sanguinosa fortuna in misura romana. E chi? Forse un prigioniero che, dopo essere stato ammesso a vedere un cumulo di anelli depositato ai piedi di Annibale, venne liberato affinché giungesse a Roma anche quest’altra testimonianza della disfatta. Il prigioniero calcolò ad occhio quell’oro ed ecco il dato in ‘moggi’ giunto per tradizione orale a Livio quasi duecento anni dopo. Questa faccenda di morti depredati ha certamente del disgustoso ma non deve far meraviglia. Nella guerre dell’antichità era normale che gli eserciti si mantenessero privando contadini inermi dei loro averi e si arricchissero col saccheggio di dimore signorili oppure spogliando avversari così vanitosi del ceto d’appartenenza da combattere con dita, polsi e collo cinti d’oro (il caso dei romani, appunto). Chi a Canne procedette alla squallida operazione di ‘prelievo’? Sicuramente gli stessi soldati cartaginesi a battaglia finita. Un compito in più richiesto da Annibale a uomini già stremati da una battaglia epica ma pungolati dalla prospettiva che parte di quella ricchezza destinata alla Patria sarebbe stata distribuita fra la truppa. Perciò, più oro scovava il soldato, più in percentuale gliene sarebbe tornato in tasca. Niente scherzi però. Con Annibale non si scherzava. Profondo conoscitore delle debolezze umane e diffidente per natura, il grande condottiero cartaginese forse predispose controlli ‘a campione’. Guai all’incauto pescato con un anello nascosto sotto la lingua, nella scarpa o tra le piume dell’elmo. Non se la sarebbe cavata con dieci bastonate e altrettanti giorni di paga in meno. E venire sgozzati per mano degli stessi compagni dopo aver avuto la sorte di scampare a quel bagno di sangue doveva avere più il sapore della beffa che della tragedia.
Italo Interesse
Pubblicato il 27 Marzo 2014