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Mennea, una freccia contro il doping

Due anni fa si spegneva a Roma Pietro Mennea. Aveva abbandonato la carriera agonistica alle Olimpiadi di Seoul, nel 1988. Un ritiro annunciato, non tanto per limiti anagrafici quanto per il rifiuto verso un mondo, quello dell’atletica leggera, che aveva appena imboccato la strada (senza ritorno) del doping. In un’intervista rilasciata l’anno prima a Gianni Minà su Repubblica Mennea aveva rivelato cose scottanti  :  “A Los Angeles a 32 anni, arrivai settimo (sui 200 e quarto sulla 4×100 e quinto sulla 4×400 – n.d.r.) perché sbagliai la gara. Ma era chiaro che non ce la potevo più fare contro chi si aiutava con tutti i mezzi possibili, anche illegali. E non parlo solo dell’emodoping. Come ogni essere pensante che ha passato una vita in un settore mi venne la curiosità di capire che cosa stava succedendo. Andai così a trovare il dottor Kerr, un medico che molti dicono di non conoscere che alcuni chiamano un “certo dottor Kerr”, ma che invece moltissimi anche nell’atletica italiana conoscono. Kerr mi spiegò le sue teorie e mi suggerì per iniziare la terapia che mi avrebbe portato, come disse il suo assistente, alle finale anche alle Olimpiadi di Seoul, mi suggerì dicevo, di iniziare con iniezioni di somatropina. Dopo qualche settimana me le inviò per posta in Italia. Feci la prima iniezione, mi guardai allo specchio e mi resi conto che io non c’entravo niente con tutto questo, e che se avevo vinto per tanti anni senza bisogno di nulla, probabilmente se avessi dovuto continuare aiutandomi così avrei persino mortificato tutto quello che avevo fatto prima. Così me ne andai dicendo, credo a ragione, che non potevo più competere in un mondo dominato dal doping”. (E’ il caso di osservare che la somatropina, oggi vietata, non lo era all’epoca). Quando poi Mennea morì, Minà si espresse in questi termini : “Conservo il ricordo di un grande, grande, grande, grande. Di un uomo verticale che ha dovuto lottate non solo sulle piste di tutto il mondo, ha dovuto lottare anche contro l’incomprensione di un ambiente, che è molto egoista. Ha dovuto sempre correre e fare il suo mestiere con pochissimi soldi. Per lui non c’erano mai soldi. Poi, certo, aveva un carattere tutto d’un pezzo e quindi c’erano sempre molti attriti con la federazione”. Un’altra testimonianza, quella di Gianni Mura : “Di Pietro dicevano che avesse un brutto carattere, che vedesse nemici dappertutto. Ne aveva, in effetti, a cominciare da quelli che tuonano contro il doping e poi lo fanno entrare dalla porta di servizio, per continuare con quelli che pensano solo alle medaglie e ai guadagni e non hanno capito che c’è una rivoluzione culturale da fare, cominciando dalla scuola, dall’etica, e che non c’è solo lo sport di vertice ma anche lo sport per tutti, e che comunque non ci si deve aiutare mai con farmaci proibiti. ‘Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni’. Parole sue”.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 21 Marzo 2015

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