Cultura e Spettacoli

Minguccio disse : Basta col rasoio

I partigiani usavano nomi di fantasia che spesso erano in relazione con caratteristiche o vicissitudini personali. Un giovane barbiere di Molfetta si distinse nella Divisione Garibaldina Garemi con lo pseudonimo di ‘Figaro’. Una storia appassionante la sua, che Luca Cifarelli, raccogliendola dalle labbra dello stesso protagonista, racconta romanzandola appena il necessario. Edito da Florestano a marzo di quest’anno, “Figaro – Storia di un partigiano del sud” ha incontrato attenzione in Fiera nel corso del recente Expo Libro. Cifarelli non rischia e con chiarezza calligrafica racconta la vicenda di Minguccio, giovanissimo apprendista barbiere, ma col sogno di diventare ristoratore, che partito un giorno da Molfetta per servire la Patria vi rimette piede dopo cinque anni convulsi, definitivamente maturato e risoluto a non radere più nessuno. Un’epopea la sua, che prende l’avvio con una cartolina di precetto. Strappato alla  quiete sonnacchiosa del borgo natio, Minguccio si trova scaraventato tra le tensioni della naja pre bellica, prima che la sorte gli riservi l’orrore della campagna di Russia, poi il disastro dell’8 settembre, la lotta di resistenza, la Liberazione, infine l’avventuroso ritorno a casa. E in mezzo a questi triboli da Odissea, l’attesa di Dora, la giovane moglie e madre. Una storia appassionante come ce ne furono tante in Italia nel corso dei due ultimi conflitti. Peccato che solo di poche resti traccia. Troppo alla leggera ai vecchi si continua a chiudere la bocca rimproverando loro di ‘dire sempre lo stesso fatto’ e sospirare guardando indietro piuttosto che avanti. Ma le testimonianze degli anziani, specie dei reduci di guerra, sono patrimonio inestimabile. Solo in esse, perché scevre dalle menzogne della Storia, possiamo riconoscerci ; il che serve a non smarrire l’identità, a restare in vita,  a tenere in vita la speranza. Da questo punto di vista l’opera di Cifarelli è encomiabile (non solo egli ebbe il garbo di dare ascolto ad un anziano, ebbe poi la delicatezza di lasciare traccia di un vissuto edificante e formativo). Quanto al modo di rendere tale vissuto, l’autore, dicevamo prima, non rischia. Nel senso che fugge la strada dell’originalità adottando una prosa piana e limpida. Il che, se da un lato rende nitide le cose, dall’altro spegne il colore di luoghi e persone. E’ un po’ il problema delle cose raccontate in terza piuttosto che in prima persona. Problema acuito dalla necessità di semplificare cose che si ritiene (talvolta anche a torto) suonerebbero incerte in bocca ai protagonisti. Ma che sarebbe stato della vicenda di Figaro se raccolta ‘grezza’ fosse stata riaccomodata in prima persona e in un italiano cadenzato di molfettese? Cifarelli concede in tal senso aperture timide. Ebbene, la bella storia  di Minguccio brilla più in quelle poche schegge che in tutta la sua ordinata ed impeccabile esposizione.
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Pubblicato il 12 Aprile 2011

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