Cultura e Spettacoli

Minima moralia (Meditazioni sulla Vita Offesa. T. Adorno) (92)

“Veniva fustigato in mezzo alla piazza di Messina un cittadino romano, signori giudici, e mentre quell’infelice veniva straziato sotto i colpi scroscianti, non si udiva un gemito né altro grido se non questo: “Sono  cittadino romano”. E’ così con questa menzione della sua qualità di cittadino romano che egli pensava di poter evitare tutti i colpi e allontanare dal proprio corpo la tortura: non solo, però, non riuscì a scongiurare la violenta fustigazione, ma poiché intensificava la sua implorazione avendo sulle labbra continuamente il suo titolo di cittadino romano, ecco che per quell’ infelice, per quel disgraziato che non aveva mai visto codesta peste, veniva approntata la croce, sì, lo ripeto, la croce”. (Cicerone, Actio in Verrem). “Civis romanus sum”, ripete in continuazione, sotto i colpi reiterati della verga, il “disgraziato”, di cui parla cicerone, reclamando i suoi diritti di ”civis romanus”, tra i quali quello di  essere giudicato  e, se colpevole, punito dal suo giudice naturale, che non poteva non essere di cittadinanza romana. Perfino, paolo di tarso, dichiarandosi cittadino romano, pretese di essere portato da gerusalemme a roma, pur in catene, per essere giudicato e punito, si fa per dire,  da nerone, passato alla Storia, come il più accanito persecutore dei primi cristiani. E fu accontentato! Quindi, la locuzione latina, di cui sopra, indicava l’appartenenza all’impero romano e sottintendeva, in senso lato, tutti i diritti e doveri connessi a tale stato. Il brano che ho, sopra Trascritto, fa parte  di una orazione, da cicerone, pronunciata contro verre. Chi era, dunque, verre? Era  governatore romano in sicilia, un furfante, un delinquente, che profittando dei pieni poteri attribuiti alla sua carica, aveva vessato, fino allo sfinimento, i siciliani, derubandoli in continuazione. Egli si sentiva tanto sicuro nel commettere le sue ruberie, da ammettere che rubava per il suo personale arricchimento e per quello dei suoi potenti patroni, protettori, stanziali nei “palazzi”dell’ “urbe”. Ahimè, dal punto di vista dell’attitudine, della disponibilità alla corruzione, siamo i veri discendenti degli antichi romani. La parte peggiore del ”dna” dei nostri avi ha i secoli attraversato,  non, tra tanto altro, la Razionalità, non l’Essenzialità e, quindi, non la Bellezza della loro Lingua, che essendo Stata la Lingua, Parlata dalle loro legioni, conquistatrici dei territori, gravitanti intorno al bacino del Mediterraneo, dei territori a nord delle alpi, ad est ed ovest di esse, poteva diventare, sino ai tempi nostri, una sorta di Lingua Comune, oltre che nella penisola italiettina, anche nei paesi, bagnati dal “mare nostrum”, come  chiamavano i romani il Mediterraneo, e, a nord di essa, nella francia fino alla romania, almeno, ove augusto fece esiliare il Poeta Ovidio. Nella roma antica, infatti, c’erano le “gentes”, le une contro le altre armate, che avevano le loro appendici o propaggini, rappresentate dai funzionari  o governatori, da ciascuna di esse piazzati nei territori soggetti alla dispotica, colonialistica giurisdizione romana; nella cinquantennale italiettina democristiana, post mussoliniana, c’erano le correnti che, a roma avevano  i loro  capi (fanfani, moro, andreotti, de mita), i cosiddetti ”cavalli di razza”,  in competizione perenne nell’accaparrarsi le migliori fette del potere, mentre in periferia agivano i  colonnelli dei capi di esse, detti fanfaniani, morotei, andreottiani, de mitiani, tanto più prepotenti, quando più potenti fossero i loro padroni nella capitale. Ad esempio, se a roma il capo corrente  x diventava, per qualche tempo: presidente del consiglio dei ministri o ministro di un dicastero con il portafoglio importante o segretario nazionale della”dc”, il “xsiano” in provincia di bari, ad esempio, assumeva, sotto mentite spoglie, le vesti di federale, e non tollerava che, persino, il lava cessi pubblici non fosse “xsiano”. Ovviamente, delle medesime democristiane dinamiche, che suscitavano competizioni al centro e in periferia, soffrivano gli altri partiti, che arrivarono al potere, come il “psi”, o che col potere inciuciavano, ognora, come il ”pci”. In quest’ultimo, con molta discrezione, starnazzavano i”miglioristi”, alfiere dei quali fu il napolitano, per 9 anni, detto”re giorgio”. Caduto il muro di berlino, la maggior parte di coloro che avevano frequentato  le ”botteghe oscure” si tolsero la maschera e, nonostante avessero mangiato tanto pane e companatico, grazie alla luculliana mensa in esse imbandita, facendo finta di essersi messi dalla parte dei Diritti, della Giustizia Sociale, della Pace, cioè, dalla parte del”torto”, secondo le cornacchie dell’”establishment”, si rivelarono per quello che erano, sempre, stati, cioè, dei piccoli, medi borghesi, che  non avevano fatto altro che posizionarsi nella falsa sinistra dell’arco costituzionale. Per tornare alle grassazioni di  verre, i siciliani, non potendone più delle sue soperchierie, si rivolsero a cicerone, ché li difendesse nel processo, che era stato istruito contro il loro ex governatore. Cicerone accettò, perché verre aveva in roma protettori, a lui nemici. La moralità, la lotta alla corruzione s’invoca, quando i corrotti sono i nostri avversari politici! Infatti, anche cicerone aveva i suoi scheletri nell’armadio. Da console, aveva, di persona, accompagnato al patibolo uno dei congiurati della “congiura di catilina”, che egli aveva condannato a morte, ma, essendo il condannato, cittadino romano, perché la condanna fosse eseguita, doveva essere ratificata dal popolo romano, appositamente, convocato nel foro. Convocazione, a cui cicerone non aveva dato seguito, macchiandosi del medesimo delitto, di cui si era macchiato verre, che egli ascriveva a verre, cioè, aver fatto eseguire una condanna a morte di un “cittadino romano”, senza rispettare i diritti della sua romana cittadinanza. Tra l’altro contro i congiurati, sodali di catilina, cicerone aveva pronunciato accorate arringhe, in cui aveva messo in rilievo la depravazione morale dei congiurati, solo perché a maneggiare costoro nel tentativo di un colpo di stato, diremmo oggi, c’erano le stelle politiche, emergenti in roma, suoi avversari politici, cesare e antonio, un sicario del quale, lo decapitò. Quale, dunque, la motivazione del mio ”excursus” nella Storia di Roma? Il disappunto, che MI ha provocato il presunto ”padre nobile” di tutto: dell’ ”ulivo”, del”pd”, dell’”euro”, già due volte presidente del consiglio dei ministri, presidente della commissione europea, già professore, non so di cosa: prodi. In una intervista, rispondendo a una domanda di un giornalista su ciò che, politicamente, avviene a roma, ha parafrasato, appunto, la locuzione ciceroniana, aggiungendo un “non” a “sum civis romanus”. E fin qui, niente di male. Il male, invece, sta nell’ingiustificabile, data la sua “laus” , strafalcione, dal professorone commesso, quando ha trasformato “ civis”, sostantivo maschile della terza declinazione Latina, in “civus”, regredendolo a sostantivo maschile della seconda declinazione Latina. Egregio prodi, se, oltre 70 anni fa, IO o lei, studentini di 11 anni, frequentanti il primo ginnasio, non corrispondente, però, alla prima media unificata di oggi, avessimo commesso lo strafalcione che lei,  pur onusto di onori planetari, ha commesso, saremmo stati cacciati da tutte le scuole della repubblica. Il suo strafalcione è la cartina di tornasole del drammatico declino culturale in cui, drammaticamente, versa, l’italiettina, a cui anche lei ha fornito il suo demagogico, negativo contributo. E su di esso, se può, se la sua coscienza glielo ditta, versi, compunto, una lacrimuccia e ”mea culpa, mea maxima culpa”, battendosi, forte, forte, il petto.

 

“I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”, Tanto Recita il secondo comma dell’Art. 54 della Costituzione. Pertanto, si disonorano le Funzioni Pubbliche, le Istituzioni, alle quali si è elevati, da un popolo, culturalmente, non elevato, purtroppo, se ad Esse si elevano l’ignoranza e la sciatta sottocultura. Sarebbe il caso del sig. rossano sasso, barese,  ma deputato leghista (come mai, la”lega nord” riesce ad eleggere un deputato, nativo di bari, tra i suoi manipoli di odiatori del Meridione d’Italia e della Sua Storia? Come mai un movimento nordista che, sotto mentite spoglie, ha in progetto di perpetuare il rapporto colonialistico tra il nord e il Sud, inaugurato, si fa per dire, a far data dal 1861, cioè, dall’anno, non benedetto dalle popolazioni meridionali, della cosiddetta unità d’italia, riesce a convincere un barese a collaborare con coloro che vogliono tenere il Sud in uno stato di sudditanza non solo economica, ma sociale e culturale rispetto al nord. Il Sud, ove Vive Sono, ancora, le Vestigia della “Magna Graecia”; il Sud che ha Germinato la Lingua e la Poesia Italiana?) che nel suo profilo, postato su”facebooK”, come traccia del suo “magistero politico”, s’è tanto ringalluzzito, da pregiarsi di citare una frase di un dante, topolinato in un album, risalente a più di 70 anni fa, certo che essa fosse stata partorita dalla Maestosa Mente di Dante Alighieri: “Chi si ferma è perduto, mille anni ogni minuto” Evidentemente, il sig. sasso non avrà, giammai, letto un Endecasillabo della “Divina Commedia”, Verso di Ineguagliabile Musicalità, che non si riscontra, affatto, nella robaccia, che egli ha citato, tra l’altro risonante di ideologiume fascista.  Che dire, inoltre, del poeta, mai esistito, tal eracleone da gela, citato dal governatore leghista del veneto, tal zaia, ex ministro dell’agricoltura, che non sarebbe, mai, vissuto  nella sicilia di 2000 anni fa? Invece, eracleone e i suoi versi sono stati inventati dal Sig. Marcello Troisi da palermo, Informatico, che con il suo scherzetto, ha voluto verificare la velocità e la distanza di arrivo, ovviamente dal punto di partenza, di una notizia falsa. Esperimento, quindi, riuscito, se i suoi versi, da lui, falsamente, attribuiti a un poeta inesistente, risalendo la penisola da gela, sono arrivati sul tavolo di zaia. Il quale, in una conferenza stampa, salvinianamente, pompandosi, li ha recitati: ”Le nostre città lontane/ornamento della terra asiatica/ hanno portato qui a Gela/gente del nostro popolo/un tempo orgoglioso/Queste genti ci hanno donato/un male nell’aria/ che respiriamo se siamo loro vicini/il male ci tocca e resta con noi/ e da noi passa ai nostri parenti”. Codesta robaccia pseudopoetica, che dava credito e giustificazione al salviniano razzismo leghista della bossiana gente celtica, per zaia doveva essere  portata alla pubblica consapevolezza: la gente avrebbe dovuto sapere che  le migrazioni, sia di duemila anni fa, come quelle di oggi, hanno portato, portano morbi letali sulle sponde e sui territori dove sono approdate o giunte. Mentre la Storia ci Dice che, spesso, sono Stati Fonte di Progresso Civile, di Benessere Materiale e Spirituale   gli Incontri tra  Popoli di Diversa Cultura. Purché non siano colonizzazioni violente, come quelle praticate da bande di popoli europei, approdate  a sud e a nord del continente americano, precedute dalla croce cattolica, complice  di immani genocidi e della scomparsa di eminenti civiltà native. Che dire, per finire, della leghista lucia borgonzoni, che pur candidatasi a governare l’emilia – romagna, era all’oscuro delle regioni con cui la regione, di cui doveva essere governatrice, confina, tra le quali annotava il trentino e l’umbria. Per tralasciare la sua ammissione,”apertis verbis”, per lei di poco conto, di non aver preso un libro in mano da parecchi anni. Insomma, lo stigma del leghista, dagli esempi in questo Scritto riportati, non è il Socratico: ”Sapere di non Sapere”, “sed”:”Non è necessario sapere”, per scalare le vette del potere, contando e puntando su un popolicchio bue, che fa ad essi da sgabello.

Pietro aretino, già detto Avena Gaetano.

 

 

 

 

 


Pubblicato il 2 Marzo 2021

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