Cultura e Spettacoli

Molazza, potenza del frantoio

Potranno mai essere sostituite le macine? Se sì, c’è da rabbrividire al pensiero del pane di domani. Da diecimila anni le farine si ricavano dalle granaglie sempre allo stesso modo: frangendole fra due superficie di pietra. Al più è cambiata la qualità del materiale: non più blocchi modellati di selce o carparo di dimensioni variabili dai 60 ai 120 cm. di diametro,ma impasti industriali di selce, magnesiti e smeriglio. La migliore resistenza di questi impasti ha reso obsoleti i remoti cilindri di roccia, oggi evoluti in ricercatissimi elementi di decorazione per sontuose residenze di campagna e masserie restaurate. Una mola di quelle grandi può arrivare a costare tremila euro. Un valore che rende solo parzialmente giustizia alla storia che c’è dietro ogni macina. Ognuna di queste ruote in pietra equivaleva alla paga giornaliera di un cafone moltiplicata per mille e più. Ogni frantoio aveva necessità non di uno, ma di due elementi macinanti, detti anche molazze o palmenti, il primo posto verticalmente sul secondo. Il costo, esorbitante, si spiega con la necessità di estrarre da una cava un blocco di roccia pari ad almeno il doppio del necessario e sagomarlo a colpi di scalpello. A carico del committente erano poi trasporto e collocazione. La prima operazione era piuttosto delicata: La pessima qualità delle vie di una volta e i mezzi di trasporto impiegati (carri agricoli non certamente ammortizzati) metteva spesso a repentaglio l’integrità del manufatto. Per questo motivo le macine venivano acquistate sempre dalla cava più vicina. Il che significava, almeno qui in Puglia, un tipo di pietra sensibilmente diversa dal Gargano al Salento, ovvero una differenza anche sensibile nella qualità del prodotto finito. La seconda operazione si presentava non meno complessa: La distanza fra le due mole doveva essere regolabile, sì da adattarsi al seme da tritare. Un altro lavoraccio eseguito a forza di braccia e che sulla coscienza ebbe non poche mani e non pochi piedi cioncati. Le mole, poi, non erano eterne. La loro durata era in ragione dell’uso e della qualità della pietra.Periodicamente, ogni macina andava ‘martellata’ al fine di restituire la giusta ruvidità alla superficie destinata alla triturazione. Perdendo alcuni millimetri ad ogni martellatura, la mola finiva col non avere più sufficiente aderenza col piano di molitura. Il risultato era una macinazione scadente. Il che determinava la necessità di una sostituzione. In definitiva, più dura era la qualità delle selce o del calcare impiegati, maggiore era la vita della macina. Tenuto conto infine dei non pochi occhi perduti dagli scalpellini a causa di schegge ‘sparate’ durante la scalpellatura, per una questione di rispetto l’unico posto adeguato ad una mola dovrebbe essere un museo.

 

Italo Interesse

 

 


Pubblicato il 24 Aprile 2021

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