Cultura e Spettacoli

Nel nome di Oscar

Si disquisisce di post-rock con la stessa energia con la quale a suo tempo si cercava di fare ordine all’interno di quel vasto calderone che ancora oggi resta il rock. Se tiriamo in mezzo questo genere emerso di recente è perché si fa molto parlare dei The Wild Club (e della loro – omonima – prima incisione), un ensemble barese che dichiara di esprimersi in termini post-rock. Senza entrare in un disputa che minaccia di rivelarsi sterile, diciamo subito e soltanto che ‘The Wild Club’ è un buon disco quasi del tutto strumentale e di cifra orientativamente nostalgica cui può solo rimproverarsi la brevità (27’) ; in compenso il sestetto nostrano sta per tornare in sala d’incisione e questa volta con più corposi disegni. The Wild Club, questa formazione che omaggia non solo il nome ma in qualche modo anche lo spirito del grande poeta dandy, vuol dire : Pierpaolo Martino (basso, loops, voce), Maurizio Ranieri (piano, tastiere), Adolfo La Volpe (chitarre), Stefania Ladisa (violino), Claudio Digennaro (batteria) e Fabrizio Piepoli (voce). Un disco, dicevamo, all’insegna di un decadentismo da terzo millennio e che vede in Pierpaolo Martino, autore e coautore di quattro brani su sei, il suo punto di riferimento. Apertura con ‘Fanny’, quadro della memoria dove il languore prende corpo poco a poco sino a che la voce dello stesso Martino non innesca la svolta ritmica conclusiva. Il successivo ‘Digging in my darkness’, che reca la firma di Maurizio Ranieri, raccoglie il precedente magone che sviluppa – enfatizzandolo – in termini struggenti. ‘The true lover’ vede la voce di Fabrizio Piepoli svolgersi delicatissima intorno a strumenti che sussurrano come pensierosi sino a che, improvvisa, ma non inattesa, esplode l’ennesima coda strumentale, il cui colore epico fa questa volta pensare ai Sigur Ros. A seguire, ‘Johnnymarr’, di Martino/Ranieri ; un brano sereno, pieno di dinamismo, molto serrato, ficcante, dall’architettura lineare e concreta. Con ‘Summer’ il violino lascia subito il segno ; gli fa eco la tastiera che uno alla volta si tira dietro gli altri strumenti ; è come la montata di un ricordo irresistibile ; il passato rivive coi cinque sensi e arriva addosso come una frustata ; ancora un finale in crescendo, sempre lucido nonostante la potenza dell’enfasi. Chiusura con un brano di Adolfo la Volpe, ‘Wearing the green willow’ : piano e violino dialogano pacatamente, condividendo un’emozione ; l’inserimento della chitarra sollecita il basso e ciò che era vago, ciò che era rimasto in sospeso assume forma; infine, all’ingresso della batteria i puntini di sospensione seminati in principio evolvono in un conclusivo punto d’esclamazione. 

Italo Interesse


Pubblicato il 24 Aprile 2013

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