Nella città antica l’emergenza igienica
Il problema dell’igiene a Bari Vecchia rimase tormentoso sino al 1813, anno in cui finalmente la città cominciò a espandersi oltre l’abbraccio delle mura dando respiro ad una popolazione di quasi ventimila abitanti racchiusi in meno di un chilometro quadrato. Ad acuire i guasti di tanta promiscuità concorreva la presenza in città di troppi animali : molte erano le stalle, sui terrazzi delle case e persino nei bassi si allevavano galline, conigli… (e la macellazione delle bestie come il commercio del pesce avevano luogo all’interno dell’abitato). Non esistendo, poi, un sistema fognario, i pitali venivano svuotati dentro pozzi neri o dentro cisterne ambulanti. Era poi normale sbarazzarsi dei rifiuti ‘conferendoli’ nella pubblica via, già sporca delle deiezioni di cavalli, asini e muli, infestata da insetti e altri animali sgraditi. Altro focolaio infettivo erano le ‘pannate’, ovvero le baracche dei commercianti di generi alimentari, costruzioni fatiscenti che sorgevano a piazza Mercantile o in altri larghi e nelle quali avanzi e scarti si maceravano ad ogni ora. E l’uso di seppellire i morti delle chiese?…Insomma, fra miasmi, rifiuti, scarsezza d’acqua, di luce ed aria e stante anche la modestia dei rimedi della medicina del tempo, la Bari dei nostri progenitori – come tutti i borghi antichi – era facilmente esposta a epidemie. Non per questo l’Autorità stava a guardare. Ad esempio, nel 1794 il mercato del pesce venne spostato da piazza Mercantile alla più ariosa piazza Del Ferrarese (dove più avanti sarebbe stato costruito il relativo Palazzo). La ragione? Un male agli occhi che colpiva gli abitanti a causa – come stabilito da una commissione medica – dello stazionare in loco dei rimasugli di pesce che, frammisti ad alghe, venivano utilizzati per produrre letame. Il regolamento di polizia urbana del 1817, allo scopo di agevolare il compito degli spazzini, obbligava chi abitava al piano terra a scopare il tratto di strada antistante l’ingresso della propria abitazione ad una determinata ora del giorno. Se lo stabile non aveva locali sotterranei, l’obbligo incombeva agli inquilini dei piani superiori, anche se appartenenti ad ordini religiosi. Era tuttavia consentito gettare le ‘acque luride’ (non il contenuto dei pitali) sulla pubblica via tra le 24 e l’alba. Le cautele igieniche potevano spingersi anche al di là della cinta muraria : Nel 1859 fu proposto il divieto che nel raggio di un miglio dall’abitato venisse coltivato il cotone. Si riteneva che l’irrigazione di quei terreni desse vita a pantani nocivi. Ma la proposta, del tutto irragionevole, venne respinta. Ugualmente le attività connesse al cotone ebbero fine poiché nel corso della lunga polemica sia le coltivazioni che le attrezzature necessarie alla lavorazione del prodotto vennero a mancare. – Nell’immagine, ‘Il mercato romano del pesce’, olio su tela di Albert Bierstadt (1830-1902)
Italo Interesse
Pubblicato il 12 Gennaio 2017