Cultura e Spettacoli

Nessuna giustizia per i morti di Canneto

Uno dei periodi più convulsi della storia dell’Italia Unita è stato senz’altro il Biennio Rosso. Venne così chiamato il periodo compreso tra il 1919 e il 1920 perché caratterizzato da una serie di proteste operaie e contadine che mise seriamente a repentaglio la stabilità del Paese, già prostrato dalla Grande Guerra. La repressione di tali moti popolari fu particolarmente cruenta. A Colle San Lorenzo, una contrada di Canneto Sabino, un paesetto in provincia di Rieti, la reazione delle forze dell’ordine toccò l’apice della violenza. Verso le 11:00 del 10 dicembre 1920, braccianti rientravano da una manifestazione di lotta per l’aumento delle paghe e la ridefinizione dei patti colonici in risposta alla decisione dei possidenti locali di sostituire gli scioperanti con le ‘montagnole’, locuzione avverbiale in uso all’epoca per indicare le donne che dalle alture del Salto e del Turano scendevano in Sabina per la raccolta delle olive ; queste donne, più povere di quelle che vivevano a valle, erano disponibili a lavorare a salari anche più bassi (nella Sabina la paga era di 6-7 lire al giorno per gli uomini, mentre le donne racimolavano appena un litro di olio ogni sessanta chili di olive raccolte). Della dinamica dei fatti esiste una sola versione ufficiale, a firma del Prefetto di Perugia: … “circa ore 11,30 nella frazione di Canneto (a quanto mi riferisce sommariamente il Sottoprefetto), arma Reali Carabinieri imbattutisi con circa duecento contadini scioperanti, quasi tutti armati, che in massa giravano campi, imponendo cessazione del lavoro, ingiunse a costoro di sciogliersi. Questi risposero con sassate e colpi di arma da fuoco, onde i Reali Carabinieri visti feriti Tenente e due loro compagni … fecero uso loro moschetti. I morti tra i contadini …  erano tre… oggi Sottoprefetto mi riferisce essere sei…”. Il vero bilancio invece fu di undici braccianti morti, tra cui due donne; vi furono inoltre tredici feriti. Nel processo che ne seguì, e che ebbe inizio il 12 maggio di due anni dopo presso la Prima Sezione di Accusa del Tribunale di Perugia, la versione ufficiale venne seriamente messa in discussione. Alla fine vennero condannati il Tenente comandante della Compagnia di Anconachiamata di rinforzo e un appuntato, il primo a trent’anni di carcere per “aver ecceduto colposamente i limiti di cui agli articoli 51 e 55 del Codice Penale” (legittima difesa) e per avere deliberatamente cagionato ad altri soggetti una lesione personale, con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di autorità”, il secondo a dieci per gli stessi reati, ma senza aggravanti. Sembrava che giustizia fosse stata fatta. Ma pochi mesi dopo emerse un fatto nuovo: Con la marcia su Roma dell’ottobre dello stesso anno il fascismo era salito al potere. L’evento restituì autorità ai vertici militari, ancora in subbuglio per quella sentenza. Dietro suggerimento del Ministero di Grazia e Giustizia, il Ministero dell’Interno inoltrò ricorso alla Suprema Corte di Cassazione per una revisione del processo presso il Tribunale Militare. Accolto il ricorso, l’anomalo processo di appello ebbe luogo. La Corte Marziale di Roma si pronunziò il 31 marzo 1923 assolvendo entrambi i militari dai capi d’imputazione ascritti. Beffa oltre al danno, nel 1925 vennero assegnate 5.000 lire al tenente e 1.000 all’appuntato come “gratificazione per gli importanti servizi resi”.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 11 Dicembre 2021

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