Cronaca

Oltre un milione e mezzo di euro al mese per non risolvere i problemi dell’accoglienza

 

Da giorni, 300 ospiti del Cara, di nazionalità eritrea, stanno protestando contro le lungaggini burocratiche del programma di ‘Relocation’che non gli permettono di lasciare l’Italia alla volta di altri Paesi europei. C’è voluto anche l’intervento dei vigili e della polizia per ripristinare l’ordine e la viabilità nei pressi dell’Aeroporto di Bari-Palese vicino ai luoghi della contestazione. Ecco che si riaccendono i riflettori su un’emergenza nazionale in cui si alternano i problemi legati all’accoglienza (su 40.000 migranti coinvolti solo un decimo avrebbe raggiunto la destinazione finale) a quelli di ordine pubblico. Attualmente la struttura di Bari ospita 1.500 migranti di cui circa 900 eritrei (100 sarebbero minori) in attesa di conoscere la propria destinazione in Europa, ad un costo procapite di 33 euro al giorno a cui si aggiungono altri 3,50 euro consegnati quotidianamente ad ogni ospite da spendere nello spaccio interno al Cara. Si parla quindi di oltre un milione e mezzo di euro al mese, compresi i costi di gestione e dei dipendenti impiegati all’interno della struttura, a cui bisogna aggiungere i costi per le consulenze mediche e soprattutto per l’assistenza legale in quanto tutti chiedono l’asilo politico ma a decidere è la Commissione territoriale che deve convocare ogni migrante per un’audizione. I tempi di attesa sono di circa 8 mesi, solo per l’intervista, dopo di che bisogna attendere la decisione, la quale in caso negativo può essere impugnata con un ricorso dall’interessato che, in attesa della sentenza, può fermarsi nel centro addirittura per anni. In Italia si stima che solo il 10% delle domande di asilo politico vengono accolte. A fronte di una spesa pubblica così elevata sorge spontaneo il dubbio se queste risorse non sia meglio investirle nei Paesi di origine dei migranti, aiutando la ricostruzione, l’autodeterminazione e lo sviluppo di quelle terre dilaniate da guerre internazionali, corruzione  e conflitti interni. Del resto non sarebbe il primo caso nella storia: è un dato di fatto che lo sviluppo maggiore di Paesi come, ad esempio, Eritrea ed Etiopia sia avvenuto nella metà del secolo scorso quando nazioni come l’Italia hanno investito ingenti somme in termini di costruzione di opere pubbliche (strade, ospedali, scuole, rete ferroviaria) ma anche nello sviluppo agricolo e industriale: l’Eritrea fu scelta dal Governo italiano come sede delle industrie in Africa orientale in particolare per il settore metalmeccanico, oltre all’ampliamento del porto di Massaua, considerato poi il più attrezzato e il principale del Mar Rosso. Inoltre in quella regione africana caratterizzata da differenze etniche, linguistiche e religiose, gli storici hanno accertato che i governatori italiani riuscirono a mantenere una notevole stabilità ed ordine pubblico cosa che oggi non riusciamo a mantenere nemmeno  nelle nostre città. Gli attentati in Belgio e a Parigi hanno insegnato al mondo cosa vuol dire far crescere immigrati di terza generazione in quartieri-ghetto. Nel secondo dopoguerra poi gli Alleati anglo-americani occuparono quei territori, dapprima sotto la giurisdizione italiana, e cominciarono l’opera di smantellamento delle industrie eritree come bottino di guerra. Finanche la ferrovia e la teleferica che collegava Asmara con il Mar Rosso vennero smantellate e spedite in Sud Africa. Per non parlare dell’esodo dei 3.650 cittadini italo-eritrei rimpatriati con un ponte aereo Asmara-Roma… Oggi come ieri, per le nazioni esportatrici di democrazia con le bombe ‘intelligenti’, la soluzione è sempre la stessa: destabilizzare i governi legittimi con la guerra, costringere i civili a scappare per inseguire il ‘sogno occidentale’ di una vita normale, per poi indignarsi di fronte ai barconi affondati per raggiungere l’isola che non c’è. In questo modo, facendo leva sulla sensibilità dell’opinione pubblica, si continua a chiedere all’Europa (ormai al collasso) ulteriore accoglienza fino quando il progetto delle lobby finanziarie internazionali per la sostituzione dei popoli nel villaggio globale senza frontiere, senza radici, senza futuro, sarà completato.

 

Maria Giovanna Depalma


Pubblicato il 30 Giugno 2016

Articoli Correlati

Back to top button