Cultura e Spettacoli

Plinio: sia scusata la follia della porpora

Le testimonianze di alcuni viaggiatori stranieri venuti in passato a visitare la Puglia concordano su un punto : in riva al Mar Piccolo a Taranto si levava una montagnola di gusci di murice detta Monte dei Coccioli. Tale collinetta artificiale si levava dai resti di uno stabilimento per la lavorazione della porpora, colore che in passato si ricava appunto dal murice. Fatte le debite proporzioni, qualcosa di simile al Monte Testaccio, scherzosamente detto l’ottavo colle di Roma, il cumulo alto 35 m. e formato da milioni di frammenti ceramici (anfore cariche di vino, grano e olio che – provenienti dal porto di Ostia – giungevano rotte a Ripa Grande, il porto fluviale del Tevere o che si fracassavano durante le operazioni di scarico). A Taranto si produceva una porpora che non aveva eguali nel mondo antico. L’importanza che i romani attribuivano a questo liquido violaceo secreto dal murice è sottolineata da Plinio il Vecchio : “Distingue il senatore dal cavaliere, è utilizzato per placare gli dei, fa risplendere ogni veste, nei trionfi è mescolato all’oro. Per questo sia scusata la follia della porpora”. Ancora Plinio spiega come i pescatori tarantini catturassero il murice sfruttandone l’ingordigia : In un sacco a rete fitta veniva introdotta una certa quantità di cozze, in precedenza tenute lontane dall’acqua di mare fino ai limiti della sopravvivenza. Quando poi, insaccate, venivano immerse nuovamente in mare, le cozze subito ritornavano a respirare schiudendo il guscio. Attratti dall’odore, i murici accorrevano. Non potendo col loro irto guscio introdursi nei varchi della rete, aggredivano con la lunga e acuminata lingua i mitili più vicini, che si chiudevano in difesa. I murici che non facevano in tempo a ritirare la lingua, ed erano i più, rimanevano intrappolati come in una morsa. Una volta che la rete veniva tirata su, i murici pendevano a grappoli. Per i pescatori era facile allora staccarli e selezionarli. I lavoranti addetti rompevano le conchiglie in modo da non danneggiare gli animali, ne asportavano le ghiandole che secernono il colore per mezzo di un uncino di ferro e le mettevamo a macerare in un recipiente di argilla con l’aggiunta di sale per tre giorni. Ad ogni chilogrammo di sostanza macerata venivano poi aggiunti 500 gr. di acqua. Successivamente l’intruglio era messo a cottura a fuoco lento in una caldaia di piombo posta dentro una fossa rivestita di mattoni nella quale tramite un tubo orizzontale si riversava il calore di una fornace. A questo punto si filtrava il tutto per depurarlo dei frammenti di ghiandole e si teneva la soluzione al caldo. Dopo una decina di giorni vi si potevano immergere i filati. La gamma di colori della porpora tarantina andava dal turchino al rosa e dal rosso forte al viola.

Italo Interesse


Pubblicato il 12 Agosto 2016

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