Cultura e Spettacoli

Quella legge che impediva gli sperperi di denaro nell’edilizia

Il cantiere infinito del palazzo della Regione Puglia è l’emblema di un’edilizia pubblica lenta, costosa e quasi sempre nel mirino della Finanza che puntualmente interviene per verificarne gli sprechi, i ritardi e soprattutto gli esosi rincari che le ditte appaltatrici presentano in corso d’opera. Nel caso specifico dell’opera di via Gentile progettata nel 2002 e non ancora terminata, il costo totale finora è passato da 40 milioni a 50 milioni di euro ma non è escluso che si possa arrivare a 60 milioni di euro alla consegna. Un rincaro del 50% in più sul prezzo pattuito nella gara d’appalto per 15 anni (e forse più) di attesa per il termine dei lavori. Senza contare che il mancato trasferimento degli uffici dalla sede di via Capruzzi a quella di via Gentile comporta un’ulteriore spesa di 1,5 milioni di euro di locazioni passive, insomma uno spreco di denaro pubblico di cui nessuno degli amministratori regionali sembra preoccuparsi a sufficienza. L’Italia intera, purtroppo, è piena di queste opere lunghe e costose, basti guardare le zone terremotate per capire come il Paese sia chiuso nella morsa della burocrazia e dei costi esorbitanti che le ditte appaltatrici propongono quando si tratta di lavorare per lo Stato. A qualche cittadino però è sorta una domanda: come mai cento anni fa si costruivano intere città di marmo nel giro di qualche mese a costi contenuti e oggi, nonostante le esose richieste di denaro e la tecnologia a disposizione, per completare un’opera che sia un ospedale, una scuola, un palazzo della Regione o semplicemente rimuovere delle macerie ci vogliono decine di anni e diversi milioni di euro? La risposta è semplice: la differenza sta nell’osservare scrupolosamente una legge o aggirarla (usanza tipicamente italiana dalla prima Repubblica in poi). Infatti fino al 2008 è esistita la legge n.1137 del 24 giugno 1929 (pubbl. G.U. 12/07/1929, n.161) “Disposizioni sulle concessioni di opere pubbliche” che all’art. 1 recitava: << […] La spesa a carico dello Stato sarà ripartita in non più di 30 rate annuali costanti, comprensive di capitale e di interesse. Il pagamento dei contributi dello Stato, degli enti pubblici e dei privati nelle opere in concessione può essere stabilito nell’atto di concessione in modo invariabile a corpo , qualunque sia per risultare l’effettivo costo dell’opera, ovvero a misura secondo la quantità effettiva dei lavori eseguiti in base ai prezzi fissati per unità di misura. Qualora occorra, per i lavori suppletivi ed imprevisti, di fissare nuovi prezzi, si provvederà con atto aggiuntivo, con le forme usate per la concessione. Tuttavia l’importo complessivo dei contributi non potrà superare di oltre un quinto quello prima previsto, rimanendo a totale carico del concessionario la eventuale maggiore spesa occorrente per l’opera.>> Questa legge venne adottata a modifica dell’art. 344 del T.U. sui lavori pubblici del 20 marzo 1865 n.2248 il quale stabiliva che lo Stato non avrebbe pagato più del 20% della cifra inizialmente appaltata ma <<se questo non fosse stato di gradimento della ditta appaltatrice quest’ultima avrebbe potuto dimettersi lasciando incompiuto il cantiere>>. Quindi se nel 1865 la legge dava la possibilità all’impresa di lasciare i lavori in corso d’opera a causa del rincaro dei prezzi dovuti ai lavori “straordinari”, dal 1929 questo non fu più possibile. Lo Stato avrebbe effettuato il pagamento del lavoro in 30 rate annuali e comunque avrebbe pagato non oltre il 20% la spesa per i lavori aggiuntivi, non preventivati in gara d’appalto. Eventuali costi eccedenti sarebbero stati totalmente a carico della ditta appaltatrice. Ecco come si spiega perché cento anni fa i lavori pubblici erano celeri e a costi contenuti. Quel che rimane un mistero è come sia potuto accadere che gli amministratori pubblici siano riusciti ad arginare questa norma in vigore fino al 2008 e abrogata definitivamente dal Decreto-Legge n.200 del 22/12/2008 “Misure urgenti in materia di semplificazione normativa”. Quindi se la legge del 1929 non fosse stata recentemente abrogata il ‘caro’ palazzo della Regione sarebbe costato 40 milioni a cui aggiungere un eventuale rincaro per i lavori straordinari del 20% (pari a 8 milioni), per un totale di 48 milioni di euro a fronte degli attuali 50 milioni già spesi a lavori non ancora ultimati.

Maria Giovanna Depalma


Pubblicato il 17 Ottobre 2017

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