Cultura e Spettacoli

Scuola e società…Povera Italia!

Gli insegnanti che hanno un buco lo devono mettere a disposizione del preside”. E’ la notificazione che un preside ha affisso sulla porta del suo “gabinetto”. Povera italia! La miserabile trasandatezza, ineleganza formale di codesta comunicazione, epifania dell’interiore vuoto etico, culturale  di chi detiene il potere, sia pure in una scuoletta, è la riproduziome “bonsai” della protervia di ogni potere, del potere “tout court”. Comunicazione che con l’Immaginazione ci fa riandare indietro di secoli e secoli al signorotto medioevale che, tramite una banda di scherani, faceva conoscere agli inermi, rassegnati servi della gleba, che vivevano alle falde del suo castello, le necessità che essi, inderogabilmente, avrebbero dovuto soddisfare in suo favore, anche di carattere, di tipo sessuale, inviando, magari, le giovani spose nel suo talamo in virtù dello”jus primae noctis”. O CI rimembra gli “achtung”dei nazisti che incutevano indicibile terrore nelle popolazioni, non solo militarmente, ma anche psicologicamente, annientate dalla irredimibile ferocia di essi. Sarà stata la pochezza esistenziale che caratterizza i poveri di spirito e di cultura, sarà stato il classico freudiano ”lapsus calami”, è indubitabile che “quel buco”, certamente, in possesso degli insegnanti, da essi, gelosamente, custodito, da mettere a sua disposizione, assevera un pervertimento sessuale inconscio del burocrate in questione, fedele al potere, fedele anche nell’assumere nell’infimità generalizzata della scala burocratica tutti gli atteggiamenti autoreferenziali, autocratici di chi lassù può mangiare tutta la carne che vuole; di chi non teme di contrariare il ”super-io”, la morale parruccona della collettività, non opponendo alla libidine, rimossa nell’inconscio, che vuole tracimare al livello di operativa consapevolezza,  un ”io” di ferro di essa censore irremovibile. Ma, mentre nel “lassù” del potere l’avviso del “bunga bunga” si fa senza troppi giri di parole che nascondano, Ripetiamo, freudianamente, i reali “desiderata” del re, che può essere, senza pudore, nudo, nel “laggiù” della scala gerarchica, l’ ”io” impone il nascondimento della pruriginosa  luridezza sessuale, che in ogni suo inquilino il potere, piccolo o grande, importante e meno importante, eccita, attraverso intimazioni che, surrettiziamente, possano richiamare all’obbligo probabile di un “officium” sessuale la selva dei “paria”, a qualsiasi “laggiù” appartengano o in cui s’arrabattano per sopravvivere. Ora, fuori da ogni astrattezza, tra i tanti “maximali” e “minimali”, di cui la scuola italiettina soffre, è la scarsissima “Autorevolezza” (dal Lat. augeo: Capacità di far Crescere una qualsiasi comunità) culturale e pedagogica dei capi d’istituto che per ragioni le più misteriose non hanno, giammai, insegnato o sono stati, per quel poco che hanno insegnato, i peggiori fra gli insegnanti. Magari, saranno stati dei buoni sindacalisti; magari, “cicero pro domo sua”; inseriti, magari, nella rosa di nomi che ciascun sindacato, nello spartirsi la torta delle presidenze da assegnare per lo stivale,  ha consegnato, di volta in volta, in occasione dei concorsi a preside o a dirigente scolastico, a chi di dovere. La Verità è che da lunga pezza sullo scranno più alto di tante scuole italiettine è seduta una marmaglia di asini nel Leggere e nello Scrivere (il contenuto dell’avviso di un dirigente scolastico ai suoi schiavetti, che abbiamo posto come “incipit” di questo nostro Scritto, ampiamente, dimostra le nostre lamentazioni), forse, non nel fare qualche conto, magari, ”cicero pro domo sua”, come i più aridi “ragiunat”. Perché tutto questo ? Per tentarne un’analitica spiegazione è d’uopo una premessa: lo stato sa e, per esso, i detentori del potere in esso, che al popolo bue non interessa la Scuola (con la S maiuscola  per sintetizzare in, con la maiuscola ciò che Immaginiamo debba essere Essa e quale la sua Funzione nella Società e gli Obiettivi che Essa deve ProporSi di Raggiungere), ma un diplomificio con il quale, donmilanamente, dotare di carta straccia coloro che, non trovando con essa una qualche sistemazione lavorativa, anche a costo di rimetterci la pelle, vanno in qualche zona del mondo, vestiti di tricolore, a morire per gli ideali tanto cari a “re giorgio” (tra parentesi,  i savoia non li avevamo cacciati ?). Se tanto ci dà tanto, farfugliano soddisfatti i “poteroidi”: ”Ché dare ai rampolli del “buame” la Scuola ?”. Ai bisogni, alle aspettative di esso basta e avanza un’azienda scolastica di quartiere, di borgo, che con poco mangime in stalle, non a norma sismica, degradate, produca, soprattutto, maiali da macellare, magari, in afghanistan. Inoltre, il dirigente di ogni stalla non deve essere neanche competente nell’allevamento dei maiali; deve essere, soltanto, dotato di tanta pazienza sì da tollerare che i maialini si sviluppino in un’atmosfera della più vieta anarchia senza costrutto per la società dei maiali, tanto il loro destino idiota è l’idiozia del loro olocausto, come ieri, come ieri l’altro, come sempre. Fuori da ogni metafora: i capi d’istituti scolastici non sono più Presidi, cioè coloro che in passato, “Primi inter Pares”, in collaborazione con gli Insegnanti, Competenti, Bravi, quanto loro erano Bravi, Competenti nell’Area Disciplinare che Caratterizzava il Percorso Curricolare della Scuola che Presiedevano; sono dirigenti scolastici per cui un laureato in lettere, purché  sia capace di non far funzionare un istituto tecnico industriale con le poche risorse che il ministero della pubblica distruzione gli mette a disposizione, va bene per quell’istituto; così come un laureato in economia e commercio, per le medesime benemerenze, motivazioni del primo, può benissimo dirigere un liceo classico o linguistico o psicopedagogico. Codesti figuri, non avendo, giammai, insegnato o, avendo poco e male insegnato, spesso, se non quasi sempre, sentendosi pesci fuor d’acqua nell’istituto che dirigono, non essendo competenti nelle discipline oggetto d’insegnamento in esso, non sentendosi “colleghi” dei loro insegnanti, li appellano: ”docenti”, “professori”, quasi figurandosi di un’altra razza professionale rispetto ai collegi di docenti che dovrebbero presiedere non con spocchiosa, immeritata distanza, “sed” in Consonanza con essi e in vicendevole, rispettosa stima. Abbiamo conosciuto in una scuoletta ove, invano, abbiamo buttato il sangue, non metaforicamente, ma realmente, due insegnantucoli che, grazie ai buoni uffici di un alto funzionario ministeriale della p.i., avevano conseguito l’idoneità alla presidenza e aspettavano di averne l’incarico, quando fosse arrivato il loro turno per l’esaurimento della graduatoria in cui erano inseriti. Uno dei due continuava ad insegnare una disciplina scientifica, ma erano tali e tanti i fischi del suo giovane pubblico e dei parenti di essi che entrava in classe stordito e confuso. L’altro, se in qualche anno scolastico avesse insegnato, doveva, ufficialmente, considerarsi un docente di materie letterarie. “Tamen”, quando NOI arrivammo in quella scuola, costui era stato da anni esonerato dall’insegnamento ché con le buone o con le cattive maniere, da autentico mafioso, riusciva a farsi eleggere, da un corpo docente, vile, pavido, vice – preside. Costui, invece di imparare sul campo ad insegnare, imparava, bivaccando nei pressi della presidenza, a fare il preside, cioè: a pettegolare con e sui colleghi; a fare comunella con i genitori degli scolari, dando loro ragione nei contrasti che sorgevano tra essi e i suoi colleghi; facendosi, senza invito o delega espressa dalla scolastica legislazione, difensore d’ufficio anche degli scolari senza testa, ché se fosse diminuito il numero degli scolari nella sua scuola c’era il pericolo che venisse meno la necessità dell’esonero suo dall’insegnamento per l’incarico della vice – presidenza; appropriandosi di qualche rudimento di amministrazione scolastica del pubblico denaro, che potesse essergli utile per fare la cresta nell’approntare i bilanci di un’eventuale scuola da dirigere un giorno. E venne il giorno: il primo insegnantucolo, di cui abbiamo fatto cenno, s’accontentò, tra virgolette, di un istituto alberghiero situato nel suo nativo borgo marinaro, così per   i lunghi anni del suo mandato, mai più, si recò dal fruttivendolo, dal macellaio, dal prestinaio a fare la spesa (e stiamo, ironicamente, minimizzando); il secondo, che, mai o poco, s’era curato di salire in cattedra, scontento, dovette accettare la presidenza di un liceo scientifico a pochi chilometri dal suo borgo marinaro (ché riteneva di essere meritevole di un mandato presidenziale scolastico posto sotto il suo culo), salvo, poi,  dopo un anno di esilio, brigando con le sue conoscenze e aderenze mafiose, ad ottenere da “augusto ottaviano”, che con Ovidio era stato inflessibile e lo aveva lasciato marcire in romania, per aver il grande Poeta Composto gli “Amores” (“Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore, di questo debbo tacere quale è stata la mia colpa”), il ritorno in patria, assicurandosi la presidenza, egli un “umanista” (???), di un istituto tecnico industriale, ove sapeva di non capire niente di viti e bulloni, ma capiva di sapere, furtivamente, “crestare” a svantaggio del lauto, rispetto ad altre scuole, bilancio di cui godevano e godono gli istituti tecnici e professionali. Raccontando di codesti due omuncoli, abbiamo verificato che il “Principio di Peter” non è un paradosso, ma riguarda dinamiche di carriera all’interno di organizzazioni gerarchiche: un individuo può salire nella carriera lavorativa, arrampicandosi per un’ unica filiera di competenze o passando da una filiera all’altra; il risultato, apparentemente paradossale, è che  l’ometto arriva al vertice della carriera, non avendo alcuna competenza per risolvere, positivamente, i problemi che l’altissima poltrona, su cui poggia il suo deretano, quotidianamente, gli pone. Comunque, per mettere meglio a parte i nostri 25 Lettori di ciò che il legislatore attuale pretende da un dirigente scolastico, dobbiamo RagguagliarLi sulla nostra odissea in veste di candidato a un concorso a preside. Dato, ingenuamente, per scontato che qualche domanda sulle nostre conoscenze di legislazione scolastica, CI sarebbe stata somministrata durante l’esame orale, se  avessimo, indenni, superato le forche caudine dell’esame scritto, CI Preoccupammo di Approfondire Temi, Problematiche pedagogiche e psicologiche e di Dare una Rinfrescatina alla nostra Preparazione  concernente il “Territorio” culturale, umanistico- filosofico, ovviamente, acquistando, “libenter”, per la bisogna tanti, tanti Libri. Nel giorno stabilito per l’esame scritto in uno sgangheratissimo liceo classico, nei pressi di “piazza esedra” in roma, ecco la traccia  del tema che CI viene dettata: ”Dica il candidato cosa deve fare un preside all’inizio dell’anno scolastico ché la scuola a lui affidata funzioni nel modo migliore”.”Sed” il miglior funzionamento di una scuola, a un preside affidata, non atteneva l’esigenza di migliorare, diuturnamente, la Qualità, oltre che la Quantità  (che non è una parolaccia), dell’Insegnamento impartito ai giovani; il Divertimento nell’ EducarSi, da parte degli Insegnanti, Educando i loro discepoli; la Razionale Serenità nel vicendevole Rispetto tra Insegnanti e Discepoli, Auspice, Ispiratrice la Cultura e Mentore il Preside o il Dirigente scolastico, ma banali gesti, provvedimenti della più vieta specie burocratica. Schifati da richieste tanto meschine, Scrivemmo sul candido foglio che s’aspettava da NOI una elegante Dissertazione di “Paideia”: ”Cosa deve fare un Preside ? Ciò che il potere non vuole che Faccia o Diventi: un’Autorità educante che con Fermezza sia il Coordinatore di uno Stare Insieme nella Scuola, da parte di Tutti Coloro che in Essa Operano nel rispetto dei ruoli  e di Coloro che di Essa Fruiscono, Finalizzato alla “Paideia”, cioè all’Ideale di Perfezione etica, culturale e di Civiltà a cui Essi devono Tendere”. Chiusa la busta, rifiutai di concorrere per espletare il mestiere insulso di direttore di un diplomificio e, insalutato ospite, ripresi il treno per l’odiato paesello. Povera Italia, se il Censis ha nel suo rapporto annuale palesato che il tuo popolo è “sciapo e infelice”, è ché le ondate delle generazioni nuove, che si giustappongono alle vecchie, sono allevate in agenzie educative, quali la famiglia, la scuola, la sacrestia, il partito, altrettanto, sciape che  “educano” infelici. Infatti, il raggiungimento della Felicità, secondo il Modello che da Platone e Isocrate arriva, pur con varie sfumature, al tardo Ellenismo, è il risultato di un Processo continuo, mai compiuto, che Impegna tutto l’Uomo, ma attraverso cui Questi Realizza, pienamente, Se Stesso, come Soggetto autonomo, consapevole di Sé, in armonia col mondo. Povera Italia sei, mai, stata doviziosa di spazi, di luoghi  ove non bisogna cercare l’Uomo con il lanternino ?

Pietro Aretino, già detto Avena Gaetano

pietroaretino38@alice.it        


Pubblicato il 10 Dicembre 2013

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