Cultura e Spettacoli

Si muor, ma non si dice…

E’ volato in cielo, non è più, si è spento… Morire è vietato. Se persino invecchiare è sconveniente, il posto dell’anziano o del malato terminale è altrove che non casa. Emarginati in strutture a metà strada tra il lager e l’impianto industriale, i ‘vecchi’ non deturpano strade, platee, spot. Ma guai se il Cielo ci privasse d’anziani e malattie impietose. Di che camperebbe l’immenso business farmacologico e dello smaltimento della carcasse? (ma quale culto dei defunti). Intorno a questo tema greve, si svolge “The End”, ultima produzione di Babilonia Teatri, qualche giorno fa in cartellone al Kismet. Avvolta nella nudità della scena, per cinquanta minuti  una pressoché sola Valeria Raimondi (coautrice con Enrico Castellani) si scaglia in una giaculatoria assillante che sferza, che denuda, mette all’incide, sbatte mostri in prima pagina. Ma in questo J’Accuse, cui non è estranea un’ironia sottile quanto amara, striscia ben altra denuncia. Tra le righe qui non si condanna solo lo storico  equivoco culturale intorno alla morte, che indirettamente è alla base della moderna idiosincrasia alla felicità. Qui è in discussione il diritto di vita e di morte su animali, pesci e vegetali che il Creatore avrebbe concesso all’Uomo. Non basta. Perché dietro ogni parola di ‘The End’ si nasconde qualcosa di più dell’indignazione verso il crudele meccanismo biologico che assegna la medesima squallida fine a un germoglio d’insalata, un bambino, un agnello, un capodoglio. In sostanza, questa ‘creazione’ non meritava una ‘regia’ migliore?… Contro il muro di gomma dei massimi sistemi rimbalza il gomitolo di interrogativi che è alla base di questa coraggiosa messinscena. In ‘The End’, tuttavia, non esiste solo squallore da pannolone e decomposizione, ben sottolineata da musiche opportune (De André, Tenco, Morricone, Doors). In ‘The End’ vibra pure la speranza. Muore anche Cristo, è vero (cruda, durissima la scena del patibolo del Salvatore sollevata a forza di braccia). Muore, convivendo la pena con altri infelici (che qui non sono ladroni pentiti o meno bensì gli stessi innocentissimi quadrupedi della stalla di Betlemme), però poi – come chiunque altro – risorge. E risorge a un mondo che non può essere peggiore del presente. Tanto giustifica la scena con cui lo spettacolo si chiude, un semplicissimo tableau vivant dove nel buio, sotto un cono di luce, madre e figlioletto (Ettore Castellani) si stringono in un abbraccio. Chi sarà quel bambino domani? Dietro ogni piccolo c’è la speranza del nuovo Messia, dell’Uomo della Provvidenza. E allora salutiamo ogni nato con più attenzione di quanta, con sentimento opposto,  usiamo riservare al ‘giusto’ di turno, all’immancabile ‘migliore’ che si sia incamminato sulla strada dell’ombra.
italointeresse@alice.it


Pubblicato il 13 Dicembre 2011

Articoli Correlati

Pulsante per tornare all'inizio