Cronaca

Sterpaglie e fuoco, povere campagne di casa nostra

Venerdì mattina il fumo di sterpaglie incendiate ha invaso pericolosamente un tratto autostradale della Canosa-Andria. Non bastassero gli incendi boschivi a falcidiare la Puglia, ora arriva la minaccia di campi abbandonati e ridotti a pagliai. Quest’ultima minaccia segnala lo stato di degrado in cui versano le nostre campagne, diretta conseguenza del fatto che in Puglia sono sempre meno quelli che credono nell’agricoltura. Chi possiede fondi in prossimità di un centro abitato ha già deposto da tempo pala, zappa e cesoie ; attende solo che arrivi il momento dei costruttori. Chi invece non ha questa possibilità, prova a voltare la proprietà in B&B, in agriturismo, in maneggio oppure vi pianta filari di pannelli solari. Ma quanto a coltivare uva, olive, mandorli, avena o grano non se ne parla nemmeno. “Non conviene più”, è il ritornello amaro di agricoltori convinti nel ritenere più conveniente comprare il prodotto dalla Spagna, dalla Grecia o dall’Egitto e andare a venderlo al mercato. E allora si lascia andare in malora le cose. Piantagioni ritenute commercialmente sconvenienti vengono abbattute per ricavarne legna da ardere. Così, ettari ed ettari di terreni, lasciati a morire in attesa che succeda qualcosa, si riempiono di erba. Se ne potrebbe fare luogo di pasturazione per greggi se non fosse che l’eccessivo frazionamento della proprietà fondiaria rende questi micro appezzamenti inadatti al pascolo. Intanto l’erba col prima caldo essicca e un mare di paglia si offre alle insidie di balordi e piromani o alla fatalità di un mozzicone di sigaretta oppure di un coccio di bottiglia che faccia da lente d’ingrandimento dei raggi solari. Tuttavia anche la paglia rappresenta una risorsa. C’è chi arriva in questi campi coi macchinari adatti e a lavoro finito paga per ogni balla di paglia prodotta. Purché trovi convenienza a farlo. E siamo lì, se il campo misura appena 5mila metri quadri e i mezzi devono pure fare zig zag fra alberi ridotti a scheletri o avvolti dai polloni, il ricavo in paglia non copre l’usura dei macchinari e il lavoro degli operai. Ancora lo stesso problema, l’irragionevole parcellizzazione dei fondi, non invoglia a sostituire mandorli e pere con olivi di nuova generazione, quelle piante di nuova generazione che fruttificano dopo un anno e si caratterizzano per lo sviluppo lento e contenuto, sì che possono crescere in quattro metri quadri. Insomma, qui in Puglia, o si produce in grande o, come si dice, “non conviene”. Solo una monocoltura che abbia mercato e che si estenda per svariati ettari giustifica introiti accattivanti. E invece siamo la patria dei fazzoletti di terra gelosamente chiusi da muri a secco. Non fa dunque meraviglia veder appesi ai rami di tanti alberi un ‘vendesi’ cui manca solo un punto esclamativo che segnali l’urgenza di liberarsi di un peso più che di realizzare un affare. A chi possono far gola campi malandati e, al presente, privi di prospettive produttive? Fanno gola a chi, potendo spendere, attende solo il momento giusto per assicurarsi a prezzi da fame beni sparpagliati che, una volta unificati, ritroveranno significato agricolo. E’ dura immaginare terrieri cinesi, proprietari di appezzamenti di chilometri quadrati, schiavizzare italiani impoveriti per ripiantare grano. La Storia, aveva ragione il Vico, tende a ripetersi, e con la crudeltà di aggiungere la beffa al danno.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 7 Agosto 2012

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