Una nave oneraria senza fortuna
Le navi romane ‘onerarie’ erano navi da carico particolarmente duttili. Grandi a sufficienza per affrontare l’alto mare, esse trovavano rifugio anche nei porti più piccoli a ragione del modesto pescaggio, mai superiore ai tre metri. Notevole anche la capacità di trasporto: caricavano merce fino a 150 tonnellate. Nel caso il carico per le sue caratteristiche non si prestasse ad essere stivato, veniva adagiato sul ponte, che a questo punto dobbiamo immaginare oltremodo resistente; a movimentare carichi così impegnativi, a destinazione come all’atto dell’imbarco, provvedeva un sistema presente a bordo di argani, paranchi e verricelli. Tali caratteristiche consentono di spiegare la presenza di cinque fusti di colonne di era romana (II – III secolo) adagiati su un banco sabbioso a una profondità di 4 m., a ottanta m. da Torre Chianca, località della Puglia ionica. I reperti si presentano disposti parallelamente, orientati in direzione sud-est, appena fuori la direttrice che congiunge Torre Chianca con l’antistante Isola della Malva. Quei fusti facevano parte del carico di una nave affondata. Un naufragio avvenuto a pochi metri dalla salvezza; sarebbero bastate poche decine di metri perché la nave si arenasse. Fu forse un’ondata più forte delle altre ad aprire una falla decretando la fine di nave e carico; chissà l’equipaggio. Quei manufatti (in ‘marmor carystium’ o marmo cipollino, un materiale di colore grigio-verdognolo dalle delicate venature ondulate e tortuose), forse provenienti dalle cave di Karystos, all’estremità meridionale dell’isola di Eubea, erano destinati a scopi solo ornamentali ; un elemento cilindrico alto nove m. e del diametro di meno di 70/100 cm. è troppo fragile per avere una funzione di sostegno. Tanto più che il diametro di quelle colonne erano destinato ad essere ulteriormente ridotto. Infatti le classiche scanalature verticali, pensate per dare slancio, risultano appena abbozzate. Era antieconomico trasportare colonne già rifinite, atteso il rischio di scheggiature che esse potevano rimediare sopratutto in fase di carico e scarico. Quelle colonne erano prodotti semilavorati, diremmo oggi. La rifinitura avveniva solo a destinazione dal momento che gli scalpellini non lavoravano nelle cave. Del relitto della nave, non resta nulla; solo al di sotto della prima colonna si intravvede un manufatto metallico di forma triangolare forse appartenente alla prua dell’imbarcazione. Quel po’ di ‘cocciame’ (frammenti di anfore e laterizi) che si presentava sparso sul fondale intorno alle colonne è oggi conservato presso il Castello Aragonese di Taranto. Infine un ‘giallo’ : All’atto della scoperta, avvenuta nel 1960, le colonne di Torre Chianca erano sette ; le due mancanti sarebbero sprofondate nella sabbia. Ma può un cedimento del banco di sabbia escludere – e in modo così marcato – altri ruderi tanto ravvicinati?
Italo Interesse
Pubblicato il 19 Maggio 2021