Cultura e Spettacoli

Felice: il tormento della polizia

Un’impresa del nord barese produce il Felice Garibaldi, un extravergine d’oliva. Perché intitolare un olio al fratello maggiore dell’eroe dei due mondi? E’ poco noto che Felice Garibaldi era un dipendente della Avigdor, una compagnia di navigazione che prosperava facendo la spola con i porti pugliesi, dove imbarcava olio d’oliva. Ispirati dall’esperienza di Pierre Ravanas, un industriale di Aie-en-Provence che alcuni anni prima aveva fatto la sua fortuna qui da noi introducendo la novità del torchio idraulico, la raccolta delle drupe direttamente dall’albero invece che da terra e la lavorazione del prodotto nell’arco di ventiquattr’ore, gli Avigdor accarezzarono l’idea di allargarsi nel comparto oleario. A tale scopo, nel 1835, inviarono Felice in Puglia a stabilire contatti con le maggiori imprese del nostro territorio. Il Garibaldi fece un ottimo lavoro stringendo rapporti con i maggiori imprenditori bitontini, i Diana. In seguito, divenuto pratico nel commercio dell’olio, si affrancò dagli Avigdor e si mise in proprio. Il suo successo è testimoniato dai molti riconoscimenti ottenuti e dal fatto di disporre a Bari, nel 1851, di un magazzino personale. Ma all’apice del benessere la fortuna gli voltò le spalle. Caduto in malattia, Felice dovette far ritorno in Francia, dove si spense quattro anni dopo. Non avendo figli, lasciò tutti i suoi beni al fratello Giuseppe, il quale con quella ricchezza potette acquistare a Caprera la proprietà dove si ritirò a vivere gli ultimi anni di vita. Quali le ragioni di quella scomparsa prematura? Felice aveva poco più di quarant’anni… Non si può escludere che sulla sua indole delicata e sensibile abbia pesato il peso del cognome. Nel 1848, passando da Napoli, mentre tornava a Bari, Felice, che per ragioni di lavoro doveva spesso recarsi in Francia, finì sotto la lente d’ingrandimento del sospettosissimo Prefetto di Polizia Gaetano Pecchenedda, il quale ne segnalò tutti i movimenti al Ministro dell’Interno. Successivamente anche l’Intendente di Polizia di Bari Carlo Imperiali venne incaricato di sottoporre il Garibaldi a strettissima sorveglianza. Per quanto non si occupasse di politica e avesse rapporti sporadici e non più che epistolari col ben più noto e temuto fratello, nel marzo del 1849 Felice si vide raggiunto dall’intimazione di abbandonare il regno. Riuscì ad ottenere la revoca dell’ordine di espulsione, previa consegna del passaporto al nuovo Intendente, Luigi Ajossa, che in un rapporto lo dipinse come “audace, turbolento, operoso spacciatore di notizie sovversive…” . Tutte chiacchiere, ma la persecuzione era in atto. Controlli e pedinamenti tormentosi finirono con lo sfiancare l’innocente. Il fatto di essersela cavata nel 1851 solo grazie ad un indulto rappresentò per Felice Garibaldi il colpo di grazia. Esausto, l’innocente si arrese. Essendosi ammalato, forse di depressione, l’anno dopo dovette rientrare definitivamente in Francia. Lì, l’indignazione rimasta viva e la nostalgia dei perduti benessere e prestigio, gli accorciarono la vita.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 14 Gennaio 2017

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