Cultura e Spettacoli

L’ospedale militare inglese del Policlinico

Dopo lo sbarco in Sicilia, le truppe angloamericane cominciarono a risalire la penisola facendo partire  contemporaneamente, dagli aeroporti meridionali occupati, le ondate di incursioni nelle retrovie nemiche. Prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943, dai raid erano state colpite soprattutto Napoli, Foggia e Salerno. Bari era stata risparmiata perché scelta come base operativa portuale e aerea in quanto strategicamente collegata con gli aeroporti di Foggia, Gioia del Colle e Grottaglie. La “liberazione” procedeva senza intoppi finché, alle 19,25 del 2 dicembre, 105 aerei, quasi tutti Junkers Ju-88 della “Luftwaffe” attaccarono la flotta angloamericana ancorata nel porto. Colarono a picco diciassette navi, ma ad uccidere più delle bombe fu l’esplosione di una delle navi colpite, la statunitense ‘John Harvey’. Quella nave mercantile, infatti, portava un carico top secret: cento tonnellate di bombe all’iprite, un gas pericoloso, tossico e vescicante, vietato dalle convenzioni internazionali.  Inoltre, a causa delle reticenze degli alti comandi militari, perirono moltissimi soldati, che si sarebbero potuti salvare se non fossero stati curati soltanto per i sintomi da shock. Altrettanto avvenne per i civili. L’episodio di Bari doveva passare quanto più inosservato possibile. E così è stato. Si trattò del più grave episodio di guerra chimica del secondo conflitto mondiale, tanto che Bari fu la prima città dalla quale partirono gli studi sugli effetti della chimica sulle persone. Il 2 dicembre 1943 è passato poi alla storia come “La Pearl Harbour del Mediterraneo”. All’epoca, soltanto pochi uomini a bordo del bastimento americano sapevano cosa trasportassero. Resta la domanda a proposito dei bersagli che quelle bombe avrebbero dovuto colpire. Nei giorni successivi al bombardamento, la Sanità Militare americana inviò presso il policlinico di Bari – trasformato in  un grande ospedale militare delle forze alleate nel sud Italia – degli ispettori, affinché redigessero un rapporto esauriente sulle “strane” morti avvenute dopo l’esplosione. Secondo il Maggiore Infeld dell’Aeronautica statunitense, il primo ministro Churchill dispose che «Non fosse adoperata la parola iprite nei documenti che riguardavano il disastro di Bari». Le ustioni furono quindi classificate per causa “Not yet identified” (“Non ancora identificata”). Gli inglesi, in effetti, non potevano ammettere che, in un porto da loro controllato, fosse avvenuto un episodio di guerra chimica di così notevole portata e gli americani non potevano ammettere che fosse stato affondato un numero di navi pari a quello di Pearl Harbor. Il Policlinico – costruito dal governo fascista nel 1936 – divenne, sotto il comando britannico, la sede del 98° British General Hospital, in grado di ospitare tra i 1200 e i 2000 posti letti per i degenti, nonché di fornire il primo soccorso ai feriti grazie alle sale chirurgiche specializzate in ortopedia, neurochirurgia, maxillo-facciale e cardiochirurgia. Buona parte degli oltre duemila caduti inglesi che riposano sotto le bianche lapidi del Cimitero di Guerra del Commonwealth realizzato alla periferia di Bari, passarono sicuramente dalle sue corsie. Come racconta Gabriele Bagnoli nel suo blog “I segreti della storia”, di questo ospedale inglese resta la testimonianza di una delle tante infermiere che prestarono la loro opera assistenziale ai numerosi soldati feriti. Si chiamava Jessie Park Smith, la quale dalle coste africane dell’Algeria seguì, con il 98° Hospital, le forze alleate: prese parte allo sbarco in Sicilia per poi raggiungere le città pugliesi di Brindisi e, quindi, di Bari. Come lei stessa ricorda nelle sue memorie: <<Arrivammo a Brindisi e ci trasferimmo in ambulanza a Bari, a circa cento miglia a nord del tallone d’Italia. Il 98° British General Hospital era ospitato in un grande complesso di edifici in mattoni che doveva essere l’Università del Sud Italia e disponeva di 1200 letti, cinquecento letti l’Ospedale neozelandese, cinquecento letti quello sudafricano e altri cinquecento letti quello indiano, per un totale di quasi tremila letti>>. Ma com’era la vita quotidiana all’ospedale militare britannico? È sempre la giovane infermiera a narrarlo, consegnando alla storia il suo diario, conservato presso gli archivi inglesi della BBC dove è possibile oggi consultarlo: <<La vita al 98° British General Hospital fu estremamente impegnativa. Furono ricoverati molti feriti provenienti da diversi teatri; le unità ortopediche e maxillo-facciali furono particolarmente attive. Il personale locale venne reclutato per le funzioni domestiche, ma ci furono problemi con furti nei reparti, quindi all’uscita dell’ospedale venne condotta un’ispezione di tutti i bagagli, mentre il personale se ne stava andando. Furono trovati vari oggetti, tra cui lattine di cibo e biancheria da letto e in un’occasione venne trovato un abito ritagliato da alcune Lenzuola>>. Di tutto questo, resta oggi una sbiadita scritta, proprio sopra l’ingresso del Policlinico. In essa, anche se con un po’ di difficoltà possiamo ancora leggere: “Officers Mess 98 Br. Gen. Hospital”. Prosegue nella sua testimonianza la giovane infermiera del Royal Medical Corps, parlando proprio della cura dei feriti gravemente ustionati a seguito dell’esplosione della SS John Harvey: <<Il trattamento di tutte le ustioni è stato eseguito con l’uso di medicazioni a base di penicillina e garze di vasellina e siamo rimasti tutti stupiti dalla velocità di recupero dei pazienti meno gravi. Questa era la prima volta che la penicillina veniva utilizzata su così vasta scala e fu una vera svolta nella medicina>>. Jessie Park Smith continuò a prestare la sua opera di soccorso risalendo l’Italia: da Bari, raggiunse la città di Napoli e, nel giugno 1944, Roma. Dopo la vittoria in Europa, rientrava nella sua città Southampton nel giugno 1946: erano trascorsi ben quattro anni dalla sua mobilitazione e, certamente, nei suoi ricordi sono rimaste sempre vivide le frenetiche giornate passate al 98° British General Hospital del Policlinico di Bari.

Maria Giovanna Depalma


Pubblicato il 2 Dicembre 2020

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