Cronaca

Mafia cinese a Bari tra mito e realtà

  “Lo scarico è andato male…abbiamo perso due pacchi,sono caduti in acqua…abbiamo ritirato il resto della merce e siamo andati via”.Quando gli uomini della squadra mobile di Bari sentirono i nastri delle intercettazioni fatte alla cabina telefonica lì d’avanti al negozio cinese “Asia trading”, capirono subito che non si trattava di ordinaria “merce”, e quando quella voce orientale pronunciò il luogo dello scarico si precipitarono a controllare.  E’ tipico di chi fa il mestiere del poliziotto dubitare di tutto e di tutti, bisogna aver fiuto, capire dove si cela un crimine anche quando il criminale si veste degli abiti della persona perbene.  Siamo sicuri, però, che quel giorno d’estate del 1998, lì sulla spiaggia nei pressi di Riva del Sole a Giovinazzo, anche il più abile di loro sia rimasto attonito scoprendo che quei “pacchi” caduti in acqua erano in realtà due giovani donne morte affogate durante uno sbarco di clandestini cinesi: “merce” preziosa per una mafia che aveva ormai messo gli artigli anche sulla nostra penisola.  Arresti illustri – L’inchiesta che ne seguì portò all’arresto di cinquanta esponenti della criminalità organizzata cinese, tra cui alcuni nomi di spicco della comunità cinese a Bari, come Chen Zhiru, proprietario di fatto di alcune attività commerciali nell’ interland barese e “primo” rappresentante della comunità stessa. Il signor Chen, con sua moglie, sono stati i primi immigrati cinesi ad aprire un ristorante a Bari: il “Beijing Fandian” (in cinese: “Ristorante pechinese”), venduto qualche anno fa ad un altro connazionale “vicino” alla famiglia. Era il signor Chen assieme al secondo più importante esponente della comunità: il signor Liao Suibiao, anch’egli proprietario di fatto di alcune attività commerciali nella zona barese, a fare da collegamento sul territorio alla potentissima mafia cinese.  Quando i poliziotti hanno arrestato Chen e Liao, di sicuro non ci sarà stata sorpresa sui loro volti: loro due erano gli esponenti di spicco della comunità, quelli più potenti, quelli con più denaro e agganci utili in questo giro d’affari, che aveva come merce uomini e donne disposti a tutto per cercare un futuro migliore.  Il “padrino” – Possiamo però immaginare il loro volto colmo di stupore quando hanno posto le manette al “capo-operativo” dell’organizzazione sul territorio barese, il signor Chen Jianzong: un signore paralitico sulla sedia a rotelle, che sembrava tutto fuorché un “padrino” della mafia. “Il signor Chen Jianzong sulla sua sedia a rotelle arriva alla tavola imbandita delle migliori pietanze cinesi, dove il resto dei commensali già da tempo seduti in paziente attesa, non ha ancora toccato cibo…allora lui fa un gesto e tutti possono iniziare a mangiare”, questa scena che richiama alla mente scene del film “Il Padrino”, è stata raccontata agli inquirenti da un loro informatore infiltrato nell’organizzazione, e ci dimostrano quanto potente dovesse essere quest’uomo, dall’apparenza malaticcia e innocua, all’interno dell’organizzazione criminale asiatica nella provincia di Bari. Tratta degli schiavi – Ma cosa avevano scoperto gli inquirenti della polizia barese, abituati a trattare con criminali di ogni genere, di tanto sconvolgente da iniziare una maxi-operazione in Puglia e nel resto d’Italia contro una mafia che loro conoscevano molto poco ?  “Erano incatenati con del filo elettrico…quando dissi loro in cinese che eravamo della polizia, una donna mi si gettò piangendo ai piedi, ringraziandoci di averla salvata”, ci racconta con enfasi un ispettore della squadra mobile di Bari, una delle tante scene di “liberazione” dei clandestini cinesi ritrovati in condizioni disumane: nascosti in container o edifici, questi sfortunati protagonisti di ciò che può essere considerata come una moderna “tratta degli schiavi”, venivano segregati ed anche torturati (molti erano seviziati spegnendo mozziconi di sigarette sulla pelle).“Venivano, per così dire, torturati in diretta”, continua a raccontarci l’ispettore, “i seviziatori chiamavano al telefono i parenti in Cina o in Italia, e gli facevano ascoltare le grida del loro caro mentre veniva torturato, in modo che venisse pagata al più presto la quota-riscatto di 15.000 Euro, pattuita in patria, per trasportare ogni persona in Italia, dove poi venivano impiegati per lavorare nelle fabbriche con orari e ritmi estenuanti, e chi non aveva abbastanza soldi doveva lavorare per anni fino a che la quota non fosse stata saldata”.  Al momento della liberazione gli uomini della mobile di Bari furono accolti a colpi di mannaia dagli esponenti dell’organizzazione malavitosa cinese, che di certo non voleva perdere una “merce” così preziosa: ogni “pacco” valeva infatti 15.000 Euro (150.000 Yuan, moneta cinese), troppo, per poter essere perso in questo modo.  Leggi che non funzionano – Ed è proprio per non perdere questa “merce” che la mafia gialla, apparentemente sconfitta, architettò quel piano che le avrebbe garantito la vittoria sul tavolo degli affari: pietra di volta di ogni organizzazione mafiosa.  Una volta liberati, i clandestini cinesi venivano trasportati dai poliziotti in alcuni centri d’accoglienza , come il Centro d’accoglienza Restinco di Brindisi, dove trascorrevano un periodo che poteva durare fino ai 30 giorni, per poi ricevere un foglio di espulsione, che intimava al clandestino di allontanarsi entro tre giorni dal nostro paese. E’ facile capire come una persona che ha lavorato in patria con grandi sacrifici, indebitandosi anche con parenti e amici, per intraprendere il viaggio verso una vita nuova, una volta uscito dal centro d’accoglienza, non potesse certo pensare di ritornarsene da fallito in patria; non avrebbe potuto neanche volendo, essendo privo dei denari sufficienti al viaggio di ritorno.  Fu proprio questa enorme falla della legge italiana a garantire all’allora mafia gialla il recupero certo della loro “preziosa merce”: gli scagniozzi di Chen Jianzong, avvisati da altri loro complici mischiati agli immigrati, si presentavano al momento giusto all’uscita dei centri d’accoglienza, per intimare, facendo uso della violenza, ai loro “schiavi” di ritornare nelle loro grinfie.Era inutile opporre resistenza o chiamare eventuali parenti o amici, i clandestini non potevano far altro che ritornare segregati nei container e negli edifici dove poi sarebbero stati smistati in altre parti della Puglia o dell’Italia per essere impiegati come manodopera a bassissimo costo nelle industrie.Roba da 007 – L’operazione “Asia trading”, che prendeva il nome dal ristorante cinese dal quale partirono le indagini, ebbe allora una risonanza su tutti i media nazionali ed internazionali, che ne descrissero a grandi linee le dinamiche.  Ciò che però fu volutamente omesso dagli inquirenti, e che il nostro giornale rivela oggi in esclusiva, è l’intromissione nelle indagini di un agente segreto inviato dal  governo centrale di Pechino, per fare indagini sulle infiltrazioni della “triade” nel nostro paese.  Quando gli inquirenti osservarono la scena, si resero conto di non trovarsi di fronte ad un uomo comune, “era un armadio…molto più alto e robusto di un normale cinese”, ci racconta uno dei poliziotti presente quel giorno alla rissa, scaturita per la divisione degli immigrati clandestini, tra due gruppi rivali della mafia cinese di fronte al teatro Petruzzelli , “lui da solo riuscì a mettere al tappeto dieci uomini del gruppo avversario”, conclude l’ispettore il racconto di quella notte, che lo lasciò sbalordito. Quel’ ”armadio”, come viene definito dagli investigatori, una volta arrestato rivelò di essere un agente “sotto copertura” dei servizi segreti cinesi. I poliziotti sono abituati a sentire questo tipo di storie da tutte le persone che per evitare la galera danno libero sfogo alla fantasia, in quei momenti l’unica arma disponibile anche per un mafioso; ma nelle parole di quell’uomo c’era qualcosa che lasciò gli investigatori molto perplessi: l’uomo disse agli inquirenti che a breve avrebbero ricevuto una lettera dai suoi superiori di Pechino.Gli uomini della mobile scacciarono dalla mente tutte quelle idee che sembravano essere uscite fuori da un film di 007, ed imprigionarono ” l’armadio” insieme agli altri, non credendo alla sua storia.  La realtà però a volte supera anche l’immaginazione del più talentuoso dei registi cinematografici, e qualche giorno dopo, quella fantomatica lettera arrivò sul serio nelle mani degli investigatori.Il contenuto diceva che l’uomo da loro arrestato doveva essere al più presto liberato poiché malato di una patologia mentale molto grave.  Ciò che scoprirono in seguito gli investigatori fu che l’uomo, in carcere da qualche giorno, aveva anch’egli ricevuto una lettera dal misterioso contenuto, e che da allora aveva cominciato a manifestare segni tipici di un paziente affetto da malattia mentale: “tremava e si atteggiava da pazzo, quando qualche giorno prima era sano come un pesce”, ci descrive uno degli inquirenti della questura di Bari, che non si fecero comunque condizionare dal comportamento apparentemente assurdo di quell`uomo, mantenendo inalterati i suoi tempi di custodia.  Gli investigatori della questura barese non hanno mai avuto prove certe sulla vera identità dell’uomo che da solo riuscì a mettere k.o. dieci uomini della mala cinese e che affermava di essere una spia della più grande nazione sedicente comunista ancora rimasta sul pianeta, ciò che è certo però è che una volta uscito di galera, gli inquirenti non hanno mai più avuto notizie di lui.I  “nostri” schiavi –  L’operazione “Asia trading”, con gli arresti convalidati nei confronti di 50 esponenti della mafia cinese a Bari, ha indubbiamente posto un forte freno all’espandersi della “mafia gialla” nel nostro paese, e più specificatamente nella terra di Bari.Le mafie nostrane e straniere, però, non possono essere sconfitte solamente con interventi polizieschi. Servono, bensì, leggi attente e responsabili che non puntino soltanto all’espulsione degli emigrati, peraltro soltanto teorica e non pratica, come emerso nella nostra inchiesta.  A causa dei pesanti costi logistici, “mettere” materialmente ogni clandestino su una nave o un aereo per il rimpatrio, comporta un costo elevatissimo, che lo stato Italiano fino ad oggi non ha mai sopportato in pieno: gli immigrati clandestini salvati dall’operazione Asia trading, per esempio, sono in molti ritornati illegalmente nelle fabbriche a cui erano destinati prima che l’operazione fosse iniziata. Bisognerebbe invece puntare al rinforzo delle forze impegnate nella lotta contro l’immigrazione clandestina, instaurare rapporti bilaterali che proteggano i diritti umani, con quelle nazioni da cui ne arriva la maggior parte, e varare leggi che vadano non solo a regolarizzare i clandestini già presenti in Italia, come fatto nelle innumerevoli sanatorie, ma anche a facilitarne l’inserimento nella società, toglieremmo così questi “moderni schiavi” dalle mani crudeli della mafia.  Se è vero, come da voci non ufficiali, che vi sarebbero circa 3000 immigrati cinesi clandestini tuttora presenti nel solo territorio di Bari, e solo 329 regolari (fonte ufficio immigrazione della Questura di Bari), capiamo benissimo come il problema immigrazione clandestina sia ben lontano dall’essere definitivamente risolto.  Accanirsi contro gli immigrati è un altro errore che molti baresi commettono nel giudicare l’immigrazione clandestina: non dobbiamo dimenticarci che immigrare, anche illegalmente, verso un paese straniero, con la speranza di creare un futuro migliore attraverso i propri sacrifici, è lo stesso desiderio che animò i moltissimi immigrati baresi verso le Americhe, e che oggi rende fieri i loro discendenti.  Gli “schiavi” cinesi lavorano nelle fabbriche che producono quei beni utilizzati da tutti, sono sfruttati dallo stesso sistema economico che è alla base della nostra vita quotidiana, forse è arrivato il momento di rendercene conto.

 

Mirko Misceo

 

 


Pubblicato il 3 Agosto 2012

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